26 aprile 2022

INCONTRO CON PAOLO CREPET-I SUOI LIBRI: "L'autorità perduta" 2015

 


Nell'avvicinarsi alla serata con Paolo Crepet, noto psichiatra, sociologo, scrittore presentiamo una serie di suoi libri che coprono vari argomenti di carattere socio-familiare. Lo facciamo per meglio inquadrare il personaggio la cui valenza professionale è nota a tutti. Sempre in tema sulla famiglia e sulle sue dinamiche "L'autorità perduta" si adatta perfettamente alle tematiche di cui discuteremo martedi 3 maggio alle ore 21 al Teatro degli Impavidi di Sarzana. A seguire, dunque, la Prefazione del libro (dal sito dello studioso) e il primo capitolo. Contemporaneamente cogliamo l'occasione per segnalare l'attivazione del sistema VIVATICKET, per poter prenotare e acquistare i posti on line, oltre che al botteghino del Teatro degli Impavidi. 

 


 

L'autorità perduta

Il coraggio che i figli ci chiedono.

Anno: 2015

Editore: Einaudi Stile Libero Extra

«Dire no è difficile, soprattutto quando ci si deve mettere contro l'arreso senso comune di tanti genitori, quando si intuisce che occorre affrontare battaglie campali, reazioni isteriche, interminabili silenzi. Eppure fa tutto parte del magnifico mestiere di educare».

Prefazione

Bambini maleducati, adolescenti senza regole, ragazzi ubriachi e indifferenti, giovani senza occupazione che, invece di prendere in mano la propria vita, vegetano senza studiare né lavorare. Genitori che si lamentano di una generazione arresa e senza passioni, che sembra aver perso anche la capacità di stupirsi. Ma ad arrendersi per primi sono stati proprio i genitori, che con la loro accondiscendenza hanno sottratto ai figli l'essenziale, ossia il desiderio, salvaguardando un quotidiano quieto vivere privo di emozioni e ambizioni dove rimbomba soltanto l'elenco delle lamentele contro la società e la politica. Come se questo mondo non l'avessero creato proprio loro. Un pamphlet severo ma anche pieno di speranza, con cui Crepet ribadisce tenacemente che educare significa soprattutto preparare le nuove generazioni alle difficili, ma anche stimolanti, sfide del futuro.

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 Crescere i bambini alla vita

Pavullo, radiosa giornata di fine inverno. C’è aria di festa in paese, s’inaugura una nuova scuola materna ed elementare. Sembrano tutti orgogliosi: autorità, maestre, genitori, nonni, cittadini curiosi. Iniziano i festeggiamenti, la fanfara scende lenta il viale tra le aiuole per arrivare ai cancelli. L’erba, seminata da poco, non è spuntata e gli alberi giovani si reggono esili ai pali di legno.

Conosco bene quei luoghi di mezza collina adatti a sanatori, giocatori di ruzzola e cercatori di funghi. Le colline di Vasco Rossi e di Gino Covili, geniale pittore contadino. Covili l’avevo incontrato quando, ancora studente di Medicina, ero andato a visitare una delle prime esperienze di psichiatria fuori dai manicomi. Aveva affrescato la sala di un ex sanatorio diventato struttura d’accoglienza per i degenti – originari di quella zona – internati da anni nell’immenso ospedale psichiatrico di Reggio Emilia.

Le pennellate possenti di Covili, intreccio di dolore e stupore, incorniciavano a dovere il rivivere lieve di un manipolo di disgraziati che il potere medicale aveva reso, per lustri, impotenti.

Gino Covili l’avevo rivisto molti anni dopo, a casa sua, fra le tele popolate di contadini immensi e bestie terrificanti dei boschi, luci di osteria, mani rozze che gettano carte da gioco su tavolati di legno storto dal tempo. L’esperienza della comunità terapeutica era svanita come altre leggere speranze di cambiamento della mia gioventú, e io tornavo, di tanto in tanto, a fare conferenze in quei luoghi freschi, a me sommessamente cari.

Dunque mi avevano invitato a inaugurare un plesso scolastico, eretto in memoria di due fratelli filantropi vissuti in quei luoghi del Frignano all’inizio del Novecento.

La costruzione era stata resa possibile dall’accordo virtuoso fra una ditta, una fondazione bancaria e il comune. Esauriti i discorsi degli illustri invitati, tagliato il nastro, la gente si era affrettata al rinfresco. Il responsabile del cantiere si era offerto di accompagnarmi per le sale ancora vuote spiegandomi come avevano realizzato quel piccolo sogno.

Finalmente una scuola colorata e ariosa, con grandi spazi comuni e aule attrezzate per la didattica e lo svago. L’ingegnere m’illustrava il pieno rispetto delle norme sul risparmio energetico, le cucine con la sala mensa, le terrazze attrezzate per il buon tempo. Poi aveva aggiunto: – I pavimenti sono tutti, ovviamente, realizzati con materiale antitrauma.

Avendo intercettato la mia espressione perplessa, mi aveva chiesto se c’era qualcosa che non andava, se a mio avviso c’era stato qualche errore progettuale.

– No, no… la struttura è davvero meravigliosa. L’unico problema è quel materiale antitrauma. Non credo sia adatto ai bambini… – mi ero affrettato a rispondere, ben sapendo che mi avrebbe ribattuto che avevano pedissequamente seguito i regolamenti regionali in materia.

Il costruttore non aveva certo alcuna responsabilità, e probabilmente la maggioranza dei genitori avrà gradito l’innovazione (non ho mai sentito una mamma o un papà criticare i paraspigoli che ricoprono ogni struttura dedicata ai bambini). Eppure basterebbe utilizzare del semplice buon senso per capire che ciò di cui un bambino necessita è l’esatto contrario di quanto era stato realizzato nella pur bellissima scuola di Pavullo: un bambino ha bisogno di un pavimento «traumatico», cioè di un pavimento identico a quello di casa propria, in legno o in piastrelle, ma duro, senza mediazioni tecniche.

Le osservazioni sulla nostra quotidianità servono soltanto se contengono un aspetto metaforico, se dicono di una possibile generalizzazione. Cosí mi sono avvicinato agli eventi di cronaca nera (non certo animato da spirito da guardone del male o da appassionato di crime scene come certi pseudocriminologi alla moda), e cosí cerco di fare ascoltando ciò che ogni giorno la mia professione mi propone.

Forse solo qualche decennio fa sarebbe stato difficile identificare genitori e insegnanti inadeguati all’educare. Oggi l’impressione è che tale insipienza si sia diffusa sconsideratamente fino a raggiungere lo Stato centrale e periferico, influenzandone leggi e regolamenti.

Perché dovremmo ingannare i nostri figli? Perché dovremmo far credere loro che un pavimento è morbido e accogliente e che non si faranno mai male quando vi impatteranno? Perché abbiamo permesso che il mestiere di educatore si sia trasformato fino a eludere l’idea di dover fare crescere una generazione piú forte di giovani? Perché ci siamo convinti che educare significhi distribuire ai piú piccoli sempre piú nuovi ed efficaci paracadute? Qual è oggi la declinazione piú corretta e accettata del mestiere che fu della Montessori e di don Milani? Non certo quella di appianare ogni collina, rettificare ogni curva, riempire ogni avvallamento dell’esistenza presente e futura dei nostri bambini e ragazzi; un educatore non è un caterpillar.

E se questo ragionamento è ovvio e di buon senso, perché costruire scuole dove i bambini devono disimparare a sperimentare la vita per ciò che è, cunette e curve a gomito comprese? Perché ci prestiamo a tale immonda falsificazione della realtà?

A volte mi sembra di percepire che si stia diffondendo un certo senso comune, accettato da buona parte degli adulti, teso a rendere il futuro dei nostri figli sempre piú fragile e ricattabile. Un’alleanza, per molti versi inspiegabile, tra le diverse agenzie educative – famiglia, scuola, mass media – con lo scopo di fiaccare proprio chi dovrebbe da queste essere fortificato.

Tempo fa, mi sono ritrovato in una palestra specializzata in ginnastica per bambini. La sala era gremita e una signora cercava di far eseguire ai piccoli qualche esercizio fisico. Lo spettacolo era penoso; ognuno di quei bimbetti indossava ginocchiere, gomitiere, caschi imbottiti di gommapiuma: la regola oggi prevede che non debbano mai cadere, ma soltanto rimbalzare. A che scopo? Davvero qualcuno, in buona fede, crede che in questo modo si possano formare i dirigenti di domani, che quei piccoli, una volta cresciuti, riusciranno a competere, a viaggiare, a creare nuove aziende, a diventare con capacità, competenze e merito i futuri professionisti della nostra comunità?

Eppure, non solo questo modo di pensare l’educazione è dilagato, ma è divenuto regola sociale, ispirando perfino regolamenti destinati a disciplinare il funzionamento delle agenzie educative di ogni grado e competenza. Non è piú, quindi, solo il pensiero di qualche genitore o di qualche ligio burocrate; anche le leggi regionali e statali sono arrivate a provvedere all’indebolimento dei giovani cittadini.

Il danno, tuttavia, non è circoscritto alla burocrazia. Se una bambina che frequenta quella palestra cadesse e si scoprisse che, essendo sprovvista di ginocchiera o di casco, si è procurata una storta o un bernoccolo, il genitore (che, guarda caso, è avvocato o conosce bene un avvocato) provvederà subito a denunciare il responsabile di quell’attività.

Da tanti anni mi occupo di famiglie e di educazione, ma non mi è mai capitato di incontrare un avvocato-genitore pronto a denunciare un insegnante di ginnastica perché impedisce ai suoi figli di conoscere il significato esperienziale di una caduta.

Mi piacerebbe conoscere un genitore che pretenda che nella scuola elementare dei suoi figli la cucina non sia un’area riservata alle cuoche, ma sia invece inserita nell’attività educativa: non è forse importante, anzi strategico, che un bambino, imparando a bollire le patate e a cucinare un piatto di spaghetti, cresca sapendo che una delle colonne portanti dell’esistenza si poggia sulle proprie capacità di persona autonoma e indipendente?

A meno che un genitore non pensi che alla vita del proprio figlio provvederà il genitore stesso, e che i giovani debbano solo acquisire (gratuitamente e non per merito ed esperienza) le soluzioni che gli adulti hanno fornito loro.

Il pavimento antitrauma mi porta a un’altra considerazione.

Se le leggi e gli ordinamenti in campo pedagogico rendono le attività tutte uguali, la sperimentazione dove può trovare spazio e credibilità? La necessità – sempre presente sia pure in una minoranza della nostra comunità – di provare il nuovo e la ricerca di qualche cambiamento migliorativo non mi sembrano piú in vetta alle preoccupazioni quotidiane. Amiamo gestire l’esistente come se questo fosse il miglior mondo possibile, come se non vi fosse nulla che possa cambiarlo in meglio.

Eppure, qualsiasi cambiamento fondamentale della nostra storia sociale è avvenuto nei piccoli luoghi, dove era piú facile praticare un’esperienza che avesse il carattere della sperimentazione. È accaduto cosí al mio maestro Franco Basaglia, quando l’accademia lo costrinse a emigrare in una città di provincia (Gorizia, all’epoca letteralmente alla periferia dello Stato); e lí costruí, su piccola scala, ciò a cui, anni piú tardi, il parlamento s’ispirò per poi trasformarlo in legge.

È accaduto cosí a Maria Montessori, a don Milani, a Margherita Zoebeli (la fondatrice della scuola svizzera di Rimini che ha dato lo spunto al movimento pedagogico che ha portato a Reggio Children, ovvero all’organizzazione delle piú avanzate scuole materne del mondo), a Mario Lodi (il maestro che ha scritto uno dei testi simbolo del movimento pedagogico italiano, C’è speranza se questo accade al Vho): ognuno di questi pionieri ha cambiato il modo di pensare ai bambini partendo da una minuscola scuola elementare di un paese sulle sponde del Po, di un villaggio sulle colline toscane o di un quartiere periferico romano. Chiunque abbia conosciuto la gioia di modificare qualcosa, lo ha potuto fare sperimentandolo in piccolo.

I cambiamenti – men che mai quelli che riguardano la colonna portante di una comunità, cioè l’educazione – non possono e non debbono essere pianificati sul territorio se non dopo averli sperimentati su piccola scala. Per farlo, occorre ritrovare la gioia di pensare al nuovo, di disegnare scenari inconsueti, di dare luce a nuove pratiche, di osare ciò che non c’è, assumendo il rischio inevitabilmente correlato.

In altre parole, abbiamo bisogno di una stagione di cambiamento, reale e radicale. Non certo di duplicare il già conosciuto, di continuare a percorrere sentieri che per lo piú hanno condotto a errori marchiani.

Sperimentare significa anche derogare alla cultura che porta a costruire scuole belle ma false: dovremmo trovare il coraggio di esimerci dall’idea di asportare chirurgicamente ogni forma di dolore e di frustrazione dal cammino di crescita dei nostri figli...

 


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