24 aprile 2023

2-UNA LETTURA PER IL 25 APRILE: Mio padre era fascista di Pierluigi Battista

 



Se nel post di qualche giorno fa abbiamo fatto gli auguri di buon 25 aprile con qualche precisazione e qualche distinguo (QUI il testo), oggi vorremmo suggerire una lettura di un libro che, nella sua dolente esposizione, riproduce, nel personale e in famiglia, quanto sia problematico ricomporre una qualche armonia nel celebrare quella che deve essere definita la festa della Liberazione.


Un avvenimento che dovrebbe essere raccolto e festeggiato da ogni italiano nella sua evidente valenza storica, sociale e politica. Ma, come sappiamo, la rilettura di quelle pagine terribili della nostra storia non sono mai state sufficientemente riviste, mano a mano che la Repubblica prendeva la sua forma democratica e dunque molte storture, false interpretazioni, visioni alterate, revanscismi e nostalgiche aspirazioni hanno intorbidato il giusto, successivo cammino costituzionale restituendoci, ancora oggi, un conflitto che non dovrebbe esistere, perchè, quando una feroce dittatura cade rovinosamente dopo anni di folle e crudele governo, la comunità che ne esce dovrebbe averne introitato le cause della sua esistenza, i perchè delle sue scelte, la nascita e la composizione della sua terribile gerarchia.

Il libro di Pierluigi Battista rappresenta una sorta di riconciliazione personale nel comprendere le umiliazioni di un uomo (suo padre) che fece parte della Repubblica di Salò per scelta precisa e personale, riuscendo con amore filiale a ricomporre idealmente un rapporto che, con suo padre ancora in vita, non seppe trovare. Tuttavia, emerge distintamente tra le righe del libro la diversità di vedute, la parte sbagliata che il fascismo rappresentò nel volere costringere un popolo ad una vita nazionale i cui fondamenti poggiavano su visioni reazionarie, violente e prevaricatrici. Se i concetti di "parte giusta" e di "parte sbagliata" possono sembrare discutibili e farraginosi, vi sono momenti, nella storia di un popolo, nei quali la consapevolezza di chi sta combattendo per quella giusta, risulta evidente e indiscutibile.


L' INCIPIT DEL LIBRO

A mia madre.

E a Miriam, comunista,

che mi esortava a scriverlo


Cieca buona sorte. Atterrare nel mondo con ogni parte del corpo ben formata e al posto giusto, nascere da genitori amorevoli anziché malvagi, o sfuggire alla miseria e alla guerra in virtù di una combinazione geografica o sociale. E trovare perciò tanto più facile l’essere virtuosi.

IAN MCEWAN, La ballata di Adam Henry


Famiglia romana, con padre liberale e figlio maggiore comunista, minore fascista, zio prete, madre monarchica, figlia mantenuta: si sfidano tutti gli eventi.

ENNIO FLAIANO, Frasario essenziale per passare inosservati in società 


I

«Tutto si è rotto»

Mio padre fascista repubblichino detestava Elio Vittorini. E quando seppe che mi sarei laureato in Letteratura italiana volle subito accertarsi, con una trepidazione per lui inusuale sulle mie cose di studio, che mai e poi mai avrei speso un solo minuto della mia vita universitaria per una tesi dedicata «a quel farabutto, a quel mascalzone». Io, per la verità, non ci pensavo proprio a Vittorini, che poi nemmeno mi piaceva questo granché. Ma lui era molto sconfortato a causa delle mie oramai inaffidabili e ostili acrobazie ideologiche, e temeva che fossi attratto da quel nome che per lui suonava, invece, come l’incarnazione stessa dello zelante voltagabbana capace di ogni infamia. Il prototipo del furbastro che, per salvarsi dal triste destino del reietto, si era divertito a bastonare i cani fascisti che già stavano affogando nella vergogna nazionale.

«Proprio lui», inveiva mio padre fascista, infuriato contro l’improbabile soggetto della mia tesi di laurea. Proprio lui, il «beneficiato dal regime», il cantore recidivo dello squadrismo violento e strapaesano, aveva avuto l’impudenza di ribattezzare «figli di stronza» i giovani della Repubblica sociale italiana che avevano combattuto per il fascismo, e non già quando il fascismo era all’apice del successo, non quando era conveniente servirlo e ossequiarlo, ma quando tutto era perduto. «Figli di stronza»: ma come si permetteva, quel vecchio arnese del Ventennio, che per darsi un tono di dissidente ante litteram si era «inventato la balla di essere un fascista di sinistra sotto choc per la guerra di Spagna». Mio padre non diceva mai parolacce davanti alla sua famiglia, ma con Vittorini faceva un’eccezione: «Figli di stronza noi? Ma brutto stronzo sarà lui!».

E proprio lui, il Vittorini «accumulatore di prebende mussoliniane, il nome riverito a libro paga del MinCulPop», così lo inquadrava furente mio padre, era stato ancora più spudorato da intitolare Uomini e no un suo libro sulla Resistenza. «Uomini loro e non uomini noi, questo parassita repellente. Con tutto quello che ha ottenuto dal fascismo ci tratta come se non fossimo neanche esseri umani, schifati come sottouomini, bestie senza dignità» imprecava, già allarmato dalle mie eventuali, tutt’altro che provate, infatuazioni vittoriniane. Dopo la morte di mio padre ho capito che, con questa distinzione orribile tra «uomini» e «non uomini», Vittorini era diventato il mostro morale dei «balilla che andarono a Salò» a cercar la bella morte. Con quel titolo, ha scritto oramai negli anni Novanta uno di loro, Carlo Mazzantini, Vittorini aveva infatti commesso il crimine morale e ideologico della «bestializzazione del nemico», della sua riduzione e degradazione ad animale spogliato di ogni diritto umano. Lo voleva espellere non solo dal consorzio civile dell’Italia postfascista, ma dalla stessa casa comune dell’umanità. «Figli di stronza», «non uomini» (come gli Untermenschen dei nazisti, glossava Mazzantini, inviperito ed esagerato esattamente come mio padre): un doppio escamotage miserabile, e solo per guadagnarsi una patente di verginità antifascista. Capisco la smisurata e scorrettissima avversione di mio padre fascista per lui. E comunque una tesi di laurea su Elio Vittorini, che già allora non ammiravo affatto a causa del suo imperdonabile abbaglio sul Gattopardo, liquidato come romanzo prolisso e «vecchiotto», e perché ancora nel ’42, con la scusa della letteratura, bighellonava nella Germania hitleriana a fare convegni propagandistici con Goebbels, io non l’avrei mai scelta.

«Figli di stronza», proprio non lo poteva sopportare. Ma non c’era solo Vittorini, nel suo mirino. Mio padre era specialista di una controstoria clandestina di ispirazione fascista i cui sulfurei comandamenti, tra i miei dieci e tredici anni circa, cercò di instillarmi con ossessiva meticolosità pedagogica. Mentre, per dire, tutti esaltavano i coraggiosi ragazzi «con le magliette a strisce» che a Genova nel ’60 avevano impedito l’onta di un congresso del Msi nel cuore di una città medaglia d’oro della Resistenza, la controimmagine fosca trasmessa da mio padre era invece quella dei terrificanti ganci da macellaio con cui i dimostranti, e soprattutto i portuali, avevano arpionato e squarciato le carni dei poveri poliziotti intervenuti a difesa delle vittime missine aggredite: e ancora adesso, con qualche stagione alle spalle, quando sento parlare del «luglio ’60 a Genova», il mio istinto corre subito con un brivido a quei ganci che popolavano gli incubi di mio padre fascista e alimentavano il terrore di suo figlio più o meno dodicenne. Tutti dicevano «i sette fratelli Cervi» trucidati dai fascisti, ma mio padre ribatteva con «i sette fratelli Govoni» uccisi dai partigiani. Tutti celebravano le quattro giornate di Napoli, ma mio padre, puntigliosamente, ricordava che l’«adda passà ’a nuttata» di Eduardo De Filippo si riferiva all’orribile nottata del soldato che torna nella Napoli liberata dagli Alleati e la trova moralmente in disfacimento, con le sue donne costrette a prostituirsi ai «liberatori»: «Lo ha scritto pure quel voltagabbana di Malaparte». E mi voleva far vedere La ciociara (solo il film di Vittorio De Sica, però, perché mio padre fascista non leggeva i romanzi di Moravia per partito preso) per dimostrarmi come anche gli «antifascisti» fossero oramai costretti ad ammettere che i «liberatori marocchini» usavano violentare nelle chiese profanate, impuniti, le nostre ragazze e pure le nostre bambine.

Quella controstoria era la privatissima vendetta che mio padre fascista, sconfitto, «esule in Patria» come si intitola un libro di Marco Tarchi che non ha fatto in tempo a leggere, si era arrogato il diritto di consumare con, anzi contro l’Italia che l’aveva messo ai margini. Mio padre mi diceva che sarebbe bastato un decimo dei servigi resi con il fanatismo dei neofiti antifascisti alla Vittorini per cavarsela, rientrare nella corrente, emendarsi dall’errore di aver militato nella «parte sbagliata» durante la guerra civile: «sbagliata manco per sogno», chiosava però lui con la sfrontatezza ostentata dell’irriducibile. Che ci voleva? Mica chissà quali contorcimenti dolorosi. Sarebbe stato sufficiente un blando pentimento. Una mezza abiura. Un accettabile atto di sottomissione. Il moderato riconoscimento di un errore giovanile. L’avevano fatto in tanti, poteva farlo anche lui, in fondo. L’avevano fatto soprattutto quelli un po’ più anziani di lui. Quelli che avevano attraversato, maturi e pasciuti, tutta la stagione del fascismo-regime. Che avevano docilmente, se non addirittura con entusiasmo, consegnato l’oro alla Patria, o che avevano giurato fedeltà al Duce in cambio di una cattedra universitaria. I «vecchi con gli stivali» presi di mira dalla penna di Vitaliano Brancati. Che ci voleva? L’argomento della gioventù sconsiderata e ingenua, poi, poteva essere un mezzo formidabile per autoassolversi, ma non se ne parlava neanche.

Ci sarebbe stata infatti una splendida frase che Italo Calvino fa dire al partigiano Kim e che si poteva agevolmente adoperare per giustificare o rinnegare una scelta rivelatasi tragicamente fallimentare: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte». E in effetti: mio padre fascista aveva appena compiuto diciott’anni quando, minorenne, costrinse mio nonno, fascista ma riluttante a donare la vita del suo primogenito alla Patria di Mussolini, a firmare il permesso per farlo partire volontario in guerra. Doveva ancora compierne ventuno quando, nel giro di pochissimi giorni, tornando tra mille vicissitudini da Salonicco dove indossava la divisa dell’esercito italiano, all’indomani dell’8 settembre optò («un nulla, un impennamento dell’anima») per la Repubblica sociale italiana. E ne aveva ventidue quando venne catturato e poi, dopo aver evitato per miracolo il plotone d’esecuzione, trascinato nel campo di internamento di Coltano, vicino Pisa, per inaugurare la sua nuova vita di reietto nell’Italia antifascista. Che ci voleva a dar tutta la colpa all’inesperienza e all’ingenuità?

A mio padre, tuttavia, quella frase di Calvino piaceva sì per la sua forza letteraria ma nient’affatto per il suo significato esistenziale, perché finiva per svilire la scelta del settembre del ’43 come il frutto acerbo di una fatua sventatezza giovanile o, peggio, di uno sfortunato incidente di percorso: di un «passo falso», per dirla con chi infatti aveva scritto l’epopea resistenziale del Sentiero dei nidi di ragno, ma che lui non considerava affatto «falso». Rivendicava di aver abbracciato con entusiasmo una causa pericolosa in un’età della vita in cui suo figlio, cioè io, neanche riusciva a immaginare che il destino avrebbe potuto costringerlo a dilemmi morali e personali così vertiginosi: da quale parte andare a rischiare la morte? A che cosa valeva la pena sacrificare la propria vita, forse all’onore, alla libertà, alla rivoluzione, alla Patria, o a cos’altro?...

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Pierluigi Battista (Roma3 luglio 1955) è un giornalistascrittoreopinionista e conduttore televisivo italianoFiglio di Vittorio, che fu volontario nella Repubblica Sociale Italiana e poi dirigente del Movimento Sociale Italiano, si laurea in lettere moderne nel 1978 all'Università La Sapienza di Roma, iniziando la sua attività giornalistica nei mensili Mondoperaio e Pagina, collaborando poi a L'Espresso. Nel 1985 viene assunto come redattore, nella sede romana della Laterza, dal direttore editoriale Enrico Mistretta con cui instaura una collaborazione estremamente proficua. Nel 1988 inizia a lavorare per il settimanale Epoca e per il mensile Storia Illustrata entrambi diretti da Alberto Statera. Due anni più tardi si trasferisce al quotidiano La Stampa come responsabile della redazione romana ed editorialista. Nel 1996 accetta la proposta di Giuliano Ferrara ed è suo vice a Panorama. L'anno seguente Ferrara lascia la direzione del settimanale e Battista rientra a La Stampa come editorialista.

Nel 2004 conduce il programma di approfondimento su Rai 1 Batti e ribatti, occupando il posto di Enzo Biagi, che era stato allontanato con l'editto bulgaro. Dal 2005 al marzo 2009 è vicedirettore del Corriere della Sera, con delega per le pagine culturali. Nell'aprile 2009 è tornato a Roma come inviato editorialista del quotidiano di via Solferino. Dall'inizio del 2009 tiene regolarmente una rubrica ("Finale di partita") di attualità e costume su Magazine, settimanale del quotidiano milanese.

Il 18 gennaio 2021 annuncia l'abbandono del Corriere della Sera dopo 16 anni, a partire dal 31 gennaio. Il 26 gennaio successivo inizia a scrivere sull'edizione italiana di HuffPost.

Ha condotto tre edizioni della trasmissione televisiva di LA7 Altra storia.

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