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Uno degli argomenti che potrebbero emergere nell'incontro di lunedi 24 febbraio (ore 17,30 sala del Consiglio comunale di Sarzana) sul tema della memoria della SHOAH è proprio quello dei giovani italiani e del loro rapporto con l'Olocausto. L'ultimo capitolo, a seguire: Epilogo? (I nostri anni duemila) tratto dal libro di Carlo Greppi LA NOSTRA SHOAH, ITALIANI, STERMINIO, MEMORIA si muove proprio su queste coordinate, parlando di assuefazione e di abitudine al dolore e al sentirsi estranei nei confronti di quanto accaduto proprio quando alunni e scolaresche toccano con mano l'orrore, nei loro pellegrinaggi ai campi di sterminio. Ne discuteremo con l'Onorevole Valdo Spini e l'Onorevole Egidio Banti.
Epilogo?
(i nostri anni Duemila)
Nuotare in questo mare di dolore significa anche abituarsi. Occuparsi della storia degli stermini per anni può voler dire anche avere bisogno – bisogno come si ha bisogno della nicotina, o della serotonina – di soffermare lo sguardo sulle scene più difficili da guardare perché sono quelle che muovono maggiormente le nostre emozioni, e parallelamente si rischia di assuefarsi e non provare più niente (è possibile non aver mai provato niente?).
E sono due rischi complementari.
Almeno per il momento, io mi sento del tutto immune dal secondo rischio, ma i sintomi del primo li so riconoscere. Li ho ritrovati a Berlino, in un gruppo di cinquanta studenti italiani di sedici anni, molti dei quali, dopo aver visitato il lager di Sachsenhausen (nel quale tra le altre cose si formò la maggior parte dei “quadri” del sistema concentrazionario nazista), hanno detto di essere sconvolti, di sentirsi in colpa perché non avevano provato nessuna emozione, perché non erano stati e state male. Discuterne è stata una delle esperienze più arricchenti che un formatore possa pensare di vivere.
Ma non pensiamo che si tratti di un’eccezione: oramai, un quindicennio dopo l’istituzione del Giorno della Memoria, queste rivelazioni si manifestano ovunque, in ogni viaggio di memoria o di istruzione, in maniera inaspettata. Anche in uno dei luoghi più terribili del Novecento, quello in cui finirono più di seimila individui considerati “di razza ebraica” e per questo deportati dalla nostra penisola.
Sofia, partecipante del Treno per Auschwitz partito da Fossoli nel gennaio 2012 scrive:
Ieri abbiamo visitato il museo di Auschwitz. Abbiamo visto scarpe, occhiali, protesi, pentole, scatole e capelli, tantissimi capelli. E io non ho sentito niente. Né orrore né raccapriccio, tristezza o delusione. Mi chiedo, cosa non sono riuscita a vedere? Non mi è rimasto niente di questo 29 gennaio se non una domanda: è così facile desensibilizzarsi a tanta vita persa?
“Toccare con mano” (così dicono sempre i ragazzi), vedere le vite e la morte di altri, provare a indossare l’abito spettatoriale per trarne un insegnamento anche sulle “nostre” responsabilità. A settant’anni di distanza dagli eventi, la generazione di chi la guerra l’ha vista e vissuta e la generazione cresciuta nel lungo tempo dell’oblio propongono – a tratti impongono – a figli e nipoti un’ipertrofia di questa memoria che troppo spesso è percepita come un abuso che la sacralizza e la banalizza, istigandone la negazione (ma sarà poi tutto vero?). Ai “giovani” è richiesta una comprensione assoluta, profonda, perché assumersi la responsabilità dello sguardo dalla giusta prospettiva non è un compito facile. Un altro ragazzo, diciottenne, sintetizza il disagio profondo di un’intera generazione che è chiamata a immedesimarsi, a calarsi in un tempo che non è il suo:
Andare a ritroso, a cavallo dell’immaginazione, a evocare dei fatti di cui non si è stati osservatori è un compito arduo. È un compito che deve essere dettato dal cuore, non dall’obbligo: occorre una particolare forza di volontà e sensibilità. Non forzateci la mano, non chiamateci indifferenti, createci spazi e lasciateci tempo, affinché a nostro modo possiamo sognare o rivivere quel novembre 1938, quel gennaio 1942 e quel dicembre 1944.
È una questione di sguardi.
Tornando al primo rischio – l’aver bisogno di soffermare il proprio sguardo sulle scene più difficili da osservare –, sovente mi capita di pensare che alcune vicende non siano quasi in grado di muovere la compassione del nostro tempo così intriso di narrazioni che arrivano al – o partono dal – cuore dello sterminio. Come Schindler’s List, come La vita è bella o Perlasca, come Le benevole e Se questo è un uomo, come Vento di primavera e il Diario di Anna Frank. La storia delle leggi razziali in Italia, ad esempio: sapendo come è andata a finire, sapendo che di lì a cinque anni partirono i primi convogli verso i lager nazisti, essendo cresciuti nella cultura visuale delle immagini del filo spinato di Birkenau, cosa ci può insegnare la storia delle leggi razziali, se non che anche il fascismo italiano ha avuto inalienabili responsabilità e che – per dirla con Vittorio Foa – “i mali grandi e irrimediabili dipendono dall’indulgenza verso i mali ancora piccoli e rimediabili”?
Una scena accaduta il 27 gennaio 2011 ci può aiutare.
“Appena entrata in classe,” racconta un’insegnante del liceo artistico fiorentino di Porta Romana, Marzia Gentilini, “ho fatto finta di leggere una circolare del Ministero. Entro il 15 aprile, ho spiegato, dovete portare il certificato di nascita e di residenza, vostro, dei vostri genitori e anche dei vostri nonni. Perché chi non è nato qui, da settembre non potrà più frequentare qui le scuole. E vale anche per noi docenti: io, per esempio, dovrò tornare in Emilia Romagna.” Stando a quanto l’insegnante ha raccontato a “la Repubblica”, i ragazzi sono passati “dall’incredulità allo sgomento, alla disperazione, alla rabbia”. “Ma allora, prof, io devo tornare in Cina?” ha chiesto un alunno con gli occhi lucidi, “e io in Eritrea, dove non conosco nessuno?” ha detto un altro piangendo, e lo stesso hanno fatto un ragazzo albanese, uno di Napoli, uno che aveva il nonno piemontese e uno con la nonna della Calabria. “Possibile?, e dove dovremmo andare?”, “E perché la tv non ne ha parlato? E Internet?”.
“Era il giorno della Memoria,” ha spiegato Gentilini, “e ho voluto far sperimentare ai ragazzi di oggi cosa hanno provato i loro coetanei di settant’anni fa all’entrata in vigore delle leggi razziali.” La simulazione è durata mezz’ora, poi l’insegnante ha gettato la maschera: “Calma ragazzi, è tutto inventato. Ma attenti, perché in Italia, non molti anni fa, è andata proprio così”. Quello che qui ci interessa è che almeno uno, tra i compagni “salvati” dalla circolare, ha reagito. “Mio nonno è di Napoli, ti ospito a casa mia,” pare che abbia detto a un compagno.
Questa scena evoca un altro esperimento, fatto quattro anni fa dall’antropologo Alberto Salza, in accordo con gli organizzatori del viaggio, su uno dei tanti treni della memoria che ogni anno portano migliaia di studenti a visitare Auschwitz. Si è scelto un vagone del treno. In ognuno degli scompartimenti Salza è entrato con passo sicuro, e ha chiesto ai ragazzi i documenti e il luogo di nascita dei nonni (!). Poi, senza alcun criterio comprensibile per loro, ne ha scelto uno (il più giovane anagraficamente tra ragazzi per lo più coetanei) e l’ha portato fuori. Questa scena si è replicata sei volte, in ognuno dei sei scompartimenti. Gli studenti erano stupiti, attoniti, ma su una trentina di persone coinvolte solamente uno ha reagito. Gli educatori presenti, dopo qualche minuto di attesa, sono entrati in ogni scompartimento chiedendo cosa fosse successo e, dopo aver finto stupore loro stessi di fronte ai ragazzi senza parole, hanno svelato l’esperimento.
Si voleva solo ricordare cosa furono le leggi razziali, senza calcare la mano, suggerire un’immedesimazione che desse l’occasione di discuterne. Ci siamo trovati di fronte a una trentina di ragazzi che hanno preso estremamente sul serio la loro incapacità di reagire, di chiedere a questo adulto con i baffi e con la camicia verde militare chi fosse, a che titolo stesse chiedendo i documenti, perché avesse portato via un loro compagno e – soprattutto – dove l’avesse portato. Ci siamo trovati a “toccare con mano”, noi per primi, cosa ci può insegnare la storia di leggi razziste come quelle che revocarono la cittadinanza agli “ebrei italiani”, leggi che furono in molti luoghi improvvise, in una storia – quella dello sterminio – graduale, sì, ma nella quale ci sono stati cambi di passo bruschi e sostanziali. Una notizia, un’ordinanza, un mutamento repentino, un arresto. L’autorità, vera – come il Ministero della Pubblica Istruzione citato dall’insegnante a Firenze, 2011 – o presunta tale (un adulto con grandi capacità attoriali) che classifica, squalifica, che dichiara che sono necessari accertamenti, che esistono cittadini di serie B. Che scatena le cacce all’uomo.
Se c’è qualcosa che la psicologia sociale e la storiografia anglosassone sugli “spettatori” ci hanno insegnato è che, esattamente come chi salvò vite umane, anche chi non reagì, se interrogato molti anni più tardi, tende a rispondere “non so perché l’ho fatto”. La scelta è stata sempre estemporanea, immediata: tutti noi siamo in grado di avere coraggio e di provare pietà, e nessuno nasce indifferente. Ma a ben pochi viene lasciato il tempo di pensare. Ricordiamoci che per chi ha vissuto questa storia non è esistito un futuro già scritto: nessuno degli uomini e delle donne di cui si parla ossessivamente negli ultimi decenni è nato carnefice, vittima, o altro. E ben pochi scelsero di essere protagonisti. Gli italiani e le italiane presenti sul nostro territorio tra il 1943 e il 1945 erano uomini e donne ordinari, e la Storia li ha investiti. Questo li rende eccezionali. Ma li ha investiti gradualmente, a ondate: il fascismo, le leggi razziali, poi la guerra, l’occupazione nazista e gli stermini, la pace, i dolorosi ritorni, i processi e le epurazioni, il lungo dopoguerra. Furono tutte fasi che – in tempi e modi diversi – riguardarono un’enorme porzione del nostro continente. Dobbiamo sforzarci di ripensare in termini più generali una storia che ancora percepiamo incasellata in confini nazionali, e non siamo i soli: nonostante un importante libro di storia (Terre di sangue, di Timothy Snyder) abbia finalmente parlato di una vasta area centro-orientale occupata – e non di “Polonia”, “Ucraina”, “Bielorussia”, e via dicendo – si sente ancora troppo spesso insistere sul carattere “nazionale” della responsabilità. Il Novecento, secolo delle masse e dei nazionalismi, ci riguarda ancora troppo.
Non parliamo di “italiani”, “tedeschi” o “francesi”, ma di singoli individui europei che vissero sudditi del medesimo impero, il Terzo Reich, ciascuno dei quali scelse giorno per giorno se e come agire: è soprattutto nella dimensione micro dei vari contesti (geografici, umani, mentali) che dobbiamo cercare di capire quali sono state le variabili che hanno portato uomini e donne comuni a collaborare e a denunciare, partecipando consapevolmente alle cacce all’uomo per consegnare i perseguitati ai nazisti, in un sistema organizzato burocraticamente in cui ciascuno eseguiva il suo compito. Non pochi altri individui – è vero – si opposero, come fotografa il lavoro certosino del riconoscimento dei “Giusti” dello Yad Vashem. Laddove un’altra cultura – famigliare, locale, politica, religiosa – ebbe la forza di resistere al terremoto dei fascismi troviamo storie edificanti di salvataggio anche collettivo come nel “caso” danese. Si pensi per esempio al mondo delle campagne che, in “Francia” – nei villaggi di Le Chambon e Dieulefit – come in “Italia” – a Nonantola, vicino a Modena – permise a centinaia di persone di scampare alla Shoah.
A proposito del caso italiano Michele Sarfatti ha scritto:
l’impegno di queste e molte altre persone permette oggi di affermare che nella popolazione della penisola, per il 999 per mille classificata “ariana”, si svolse in quei mesi un duro confronto tra gli “italiani mala gente” – gli arrestatori, i delatori, gli acquiescenti, i noncuranti – e gli “italiani brava gente” – i soccorritori attivi, i caritatevoli, i solidali, i giusti. Non è quindi possibile qualificare l’insieme della popolazione né con l’una né con l’altra definizione (peraltro, in entrambi i casi, verrebbe commessa una grave ingiuria ai danni degli appartenenti al secondo gruppo).
Milioni di uomini e donne non furono naturalmente né “collaboratori” né “salvatori”, ma rivestirono incalcolabili ruoli di non facile definizione. Furono parte di quella che oramai in molti, prendendo a prestito l’espressione di Primo Levi, definiscono – vuoi per giustificare, vuoi per condannare chi fu incapace di scegliere – “zona grigia”. Ed è lì dentro che dobbiamo cercare delle risposte – complesse – alle nostre domande. Levi ha dedicato pagine indimenticabili della sua riflessione a questa zona “dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare”. Non siamo qua per pronunciare sentenze nei confronti delle azioni degli uomini e delle donne – i nostri antenati – che affollano il nostro passato, ma in mezzo a tanta morte dobbiamo saper guardare quella “zona” che sta tra i carnefici italiani e le loro vittime, una zona densa di salvatori e delatori, di persone coraggiose e codarde, spaventate e salde nella loro determinazione, indecise e contraddittorie. In quella zona dove ci furono anche “coraggio” e “pietà” vivevano milioni di uomini e donne come noi.
Noi, nati in tempo di pace, abbiamo avuto più fortuna di loro ma – come ci ricorda il Max Aue de Le benevole – non siamo migliori. Se non ci rendiamo conto che il “male potenziale” è presente in ciascuno e che è la responsabilità individuale a renderci attori della storia, ogni comodo mito e anti-mito troverà terreno fertile su cui crescere. Ecco perché il clima del “revisionismo” e della valida controffensiva culturale che ha scatenato in cui viviamo è una buona occasione per spostare definitivamente i termini del dibattito, senza relativismi etici o tentennamenti ideali, ma in ottica educativa e prospettica. Se non ci rendiamo conto che ogni “tedesco”, ogni “italiano”, ogni “francese”, ogni soldato, ogni sacerdote, ogni portinaio e ogni vicino di casa ha o non ha avuto un bagaglio culturale che gli ha permesso di dire “no” o di non farlo, saremo sempre in balìa della narrazione main stream. E cercheremo di rassicurarci, sostenendo che da “noi” non accadde nulla, o di colpevolizzarci, sostenendo che anche “noi” siamo stati persecutori, assassini. Perché le identità esistono, e creano “comunità immaginate” sulla base di interpretazioni più o meno ideologiche e più o meno utilitaristiche del nostro passato. In buona o in mala fede, le identità si costruiscono raccontando, a costo di distorcere, arrivando a inventare il “nostro” passato.
In questa storia che per molti finì ad Auschwitz non c’è niente da inventare: gli ingredienti per una nuova narrazione ce li abbiamo tutti tra le nostre mani. Che ne siamo consapevoli o no, noi storici, ricercatori, insegnanti e formatori, noi adulti più o meno giovani siamo costruttori di sensibilità pubblica. Siamo narratori, siamo storytellers. E viviamo in un tempo con un’insaziabile fame di realtà, una fame che è anche figlia di un’“urgenza emotiva”, un bisogno di partecipare, condividere e sentirsi coinvolti come lettori, spettatori, naviganti. Gli esperti del “mestiere di raccontare”, analizzando l’intelligenza collettiva che si è messa in moto negli ultimi anni, stanno rilevando una “sete di autenticità” forse inedita. Abbiamo bisogno di immergerci nelle storie, anche in quelle che hanno fatto la storia. E possiamo farlo, credo, esplorandone la complessità e le contraddizioni, imparando a conoscere le emozioni che suscitano in noi, a elaborarle e a trasformarle in conoscenza di noi stessi. Perché siamo tutti coinvolti, in questa storia, ma non perché l’abbiamo ereditata. Primo Levi lo scriveva senza esitazioni sessant’anni fa, trentuno anni prima di portare la sua testimonianza sull’uomo la cui umanità lo salvò ne Il coraggio e la pietà, trentuno anni prima di pubblicare I sommersi e i salvati, e trentadue anni prima di morire:
Siamo uomini, apparteniamo alla stessa famiglia umana a cui appartennero i carnefici. Davanti all’enormità della loro colpa, ci sentiamo anche noi cittadini di Sodoma e Gomorra; non riusciamo a sentirci estranei all’accusa che un giudice extraterreno, sulla scorta della nostra stessa testimonianza, eleverebbe contro l’umanità intera. Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?
Spesso mi capita di dover parlare di Shoah a centinaia di studenti delle scuole superiori, radunati in aule magne o auditorium, più o meno in occasione del Giorno della Memoria. Parlare di fronte a tanta gente può intimorire chiunque, non ho mai studiato come si fa ma un paio di cose le ho imparate. Per mantenere l’attenzione dell’uditorio, per esempio, bisogna innanzitutto – sembra banale ma non lo è – non perderla. Quando il pubblico è eterogeneo, composto da persone di età diverse, è più complicato trovare le parole giuste. Ma se davanti a te siedono due o trecento ragazzi tra i sedici e i diciotto anni e nel silenzio generale una professoressa sui cinquanta – che solitamente ha organizzato l’incontro – ti chiede ma com’è possibile che tutto questo sia accaduto?, tu puoi fare due cose. La prima è raccontare la storia del tuo amico giornalista che è stato alcune volte in Siria dopo che la rivoluzione si è trasformata in una carneficina. Conosceva molti dei ragazzi e delle ragazze che, armati di sogni, la rivoluzione l’hanno fatta, e ha visto un paese scivolare nel baratro dell’“odio fratricida”, della guerra civile. Dopo uno di questi suoi viaggi ci siamo visti nella mia città, Torino. “Perché la guerra, a viverla, è dannatamente bella,” mi ha detto, “l’ho capito solo vedendola da vicino: questi ragazzi si sentono immortali, in mezzo a tanta morte amano i loro compagni di lotta come dei fratelli e delle sorelle, si innamorano follemente perché ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, sembrano volare più che camminare, in mezzo a tanta morte si sentono vivi. Finché non tocca a loro.” Quando qualcuno mi chiede com’è possibile che ciclicamente nel passato e nel presente gli esseri umani si sterminino a vicenda, che la gente ci caschi ogni volta, io spesso inizio rispondendo che la guerra è bella, che la guerra è quello specchio che nessuno vorrebbe mai incontrare. Quando qualcuno mi chiede com’è possibile che noi uomini siamo fatti così, io prima ancora di raccontare quello che ho imparato dalla storia rispondo che queste cose me le ha dette un mio amico che la guerra l’ha vista da vicino. E che noi – l’ha scritto la fotografa Susan Sontag – “non riusciamo a immaginare davvero come è stato”, “non possiamo immaginare quanto è terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventa”. Anche se, nel nostro piccolo, in mezzo a qualche battaglia ci troviamo anche noi.
E infatti la seconda cosa che puoi fare, quando ti chiedono ma com’è possibile che tutto questo sia accaduto?, è guardare verso il fondo della sala, individuare quei due o tre maschi distratti, con l’espressione sveglia ma ostentatamente annoiata, e chiedere a tutti ma con lo sguardo fisso negli occhi di uno di quei due o tre ragazzi:
Qualcuno di voi gioca a calcio?
Che cazzo c’entra, risponderebbe la prof. se avesse l’età dei suoi studenti, e invece si limita a osservarti un po’ sbigottita, lo sai ma non la guardi perché i tuoi occhi ora vagano per l’aula magna o l’auditorium dove un paio di mani si alzano timide, e gli altri si fanno coraggio e almeno metà dei maschi presenti oltre a qualche ragazza sparsa qua e là nel giro di una manciata di secondi ha il braccio alzato. Cento, centocinquanta mani per aria che sanno di cosa stai parlando. Gli altri e le altre non vivono negli abissi marini, e capiscono molto in fretta quello che c’è da capire: non è la retorica dello stadio e di migliaia e migliaia di cittadini più o meno presentabili che ogni domenica vanno a sfogare i loro più bassi istinti con la scusa di tifare per undici dei ventidue gladiatori pagati per rincorrere un pallone. Nei campi da calcio del nostro paese c’è altro: c’è la storia del limite che siamo disposti a superare nel contesto in cui viviamo, del peggio che sappiamo dare per difendere la nostra “maglia”, il nostro orgoglio, la nostra “identità”, o per sconfiggere la nostra paura. Che piova o ci sia un sole da spaccare la terra, che ci si giochi la promozione nella categoria superiore o niente, ogni domenica in cui in Italia va in scena il calcio non professionistico si vede il meglio e il peggio che gli esseri umani sanno fare. Ogni domenica che dio manda in terra può capitare che ci siano ventidue persone che giocano alla guerra. E questa storia coinvolge oltre un milione di persone, tra le quali ci sono io.
A me è successo: per tredici anni mi sono trovato a doverci fare i conti, ho “toccato con mano” nella mia quotidianità quanto nessuno di noi si possa sentire immune dall’infezione, come ci si possa pericolosamente avvicinare a una condizione che non avresti ritenuto possibile, come i soldati che ci ha raccontato Christopher Browning, che “accettarono e interiorizzarono l’aspettativa connessa al loro ruolo di soldati” anche se questo non corrispondeva ai loro valori, esattamente come si può essere uccisi mentre si compie il proprio “dovere”, anche se non si vuole morire. Anche se il calcio dovrebbe essere un gioco, è difficile non guardarlo come un esperimento scientifico, come una piccola guerra in miniatura, appunto, con le sue regole scritte e quelle consuetudinarie, con tutte le rime che fa con il mondo reale, che è appena lì fuori. Negli anni ho incominciato a muovermi più agilmente tra i confini del gioco e del degenero, del consentito e dell’illecito, a orientarmi tra le regole non scritte. Ho imparato a intuire i pensieri e i movimenti di chi aveva iniziato molto prima di me, ho imparato cos’è non un avversario, ma un nemico.
Non so se è stato il caso – mi verrebbe da scrivere per fortuna ma so che la fortuna c’entra poco – o se a permettermi di restare al di qua è stato “quel pizzico di follia necessario a uscire dal conformismo”, per usare le parole di un adolescente che ho accompagnato anni fa ad Auschwitz, ma per convenzione linguistica e per la necessaria umiltà che bisognerebbe sempre avere parlando e scrivendo di sé dico che per fortuna, per fortuna io quella soglia non l’ho mai attraversata: non ho mai reagito con violenza alle provocazioni e alla violenza, ma – e non penso che questo mi renda migliore – la mia violenza l’ho dilazionata spargendola sapientemente nel corso di una due tre cento partite. L’ho dilazionata nei miei sguardi, nelle mie parole e nei miei silenzi, nei contrasti ben oltre il limite e nell’interpretare con rabbia le tante piccole battaglie che compongono come tessere di un mosaico questa grande guerra che ogni domenica va contemporaneamente in scena sulla maggior parte dei campi sfigati di questo paese, e in cui lo sport troppo spesso c’entra molto poco.
Se la vedi da fuori, la dimensione del branco ha un suo interesse, e persino un suo fascino. Anche un abitante di Plutone sa che lo sport è una valvola di sfogo, che il calcio non ne parliamo, qua da noi e negli ultimi trent’anni in particolare. In ogni branco, poi, ci sono delle dinamiche ricorrenti e alcune altre eccezionali. Non credo che la mia squadra non sia e non sia stata mai un branco, probabilmente lo è, solo in maniera diversa perché il tasso di aggressività è molto più controllato che altrove: in questo sì, ho avuto fortuna. Ma quando giochiamo a calcio noi vogliamo difendere i nostri compagni, perché siamo la maglia che vestiamo, perché per gli avversari siamo in grado di provare – specularmente a loro – un sentimento che, se odio non è, all’odio assomiglia. Il calcio, in Italia, ha cambiato me e tanti altri, in peggio.
Ognuno di noi, al di là del genere e della provenienza, ha qualche brandello di questa sensazione da cui partire affinché la storia serva a capire meglio come si comportano i vivi, e non a imparare inutili nozioni o – peggio – a puntare il dito sulle azioni di chi prima di noi ha solcato il nostro pianeta.
Non a giudicare, ma a imparare.
Carlo Greppi (Torino, 1982), storico e formatore, è stato nella redazione della mostra “Fare gli italiani. 150 anni di storia nazionale” ed è membro del Comitato scientifico dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (Istoreto). Collabora con Rai Storia e con la Scuola Holden (Biennio in Storytelling &Performing Arts). Da diversi anni organizza viaggi della memoria ed è socio fondatore dell’associazione Deina (www.deina.it), per la quale si occupa di ideare percorsi formativi nelle storie e nelle memorie del Novecento. Ha raccontato questa sua esperienza pluriennale nel volume firmato da Moreno Gentili Viaggi di memoria. Elena Bissaca e Carlo Greppi, ad esempio (RCS Education/Bompiani 2014). Il suo libro L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager (Donzelli 2012) ha vinto il premio “Ettore Gallo” per opere edite.
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