11 aprile 2025

APRIRE GLI OCCHI: GLOBALIZZAZIONE (O DELL'IMPERO UNIVERSALE) 11° capitolo tratto da GEOPOLITICA UMANA di Dario Fabbri


Le prese di posizione di Donald Trump esprimono, in maniera ambivalente, un qualche cosa di folle, cioè il voler andare, lui americano, contro la globalizzazione creata dal suo paese e permettere, nuovamente, una sorta di rinascita interna, di una nuova frontiera per tutta quella fascia di americani che, dalla globalizzazione, hanno subito i peggiori drammi e vessazioni nella quotidianità e nel lavoro.



L'improponibilità di tale approccio pare molto elevata non tanto per la particolare visione personale del Presidente, quanto perchè cozza violentemente contro quanto di egemonico ed imperiale gli Stati Uniti hanno creato e mantenuto fino ad oggi. Molti esperti si rincorrono sul web , in tv e sulla carta stampata nel tentativo, alcune volte maldestro, di trovare una spiegazione di questo sua visione interna agli States che, il più delle volte, sfugge inevitabilmente. Comunque sia, esiste già una strategia ben precisa, creata fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, che i poteri americani hanno creato per controllare il pianeta e sembra difficile pensare che tali aggregazioni possano lasciare fare impunemente a Donald Trump ciò che gli pare. La terza globalizzazione del pianeta dopo l'impero romano e l'egemonia inglese segue dettami ideologici, politici e tecnici difficilmente superabili perchè adottati comunque su tutto il globo, applicando la forza militare che fa degli Stati Uniti l'impero dominante. Se leggerete tutto il libro di Dario Fabbri, GEOPOLITICA UMANA (cosa consigliata quando si affacciano nel mondo nuovi paradigmi di lettura della complessità), vi renderete conto di cosa sia realmente la globalizzazione, di quanto poco contino i leader e di come i soliti principi (ricerca smodata del potere, della prevaricazione e del godimento) dettati dall'inconscio presente nell'essere umano governino le scelte e l'andamento geopolitico del pianeta. Con questa lettura potrete conoscere quale sia il reale ruolo degli imperi e dei suoi satelliti compresa l'Italia. Questa nuova visione spiega esaurientemente ciò che sta accadendo, compreso l'ultimo, repentino voltafaccia sui dazi che Trump ha dovuto mettere in atto o la risposta dell'altro impero nascente della Cina. Nel caso non vogliate o pensate che la lettura di questo testo non sia importante, leggete almeno il capitolo a seguire che vi farà comprendere, almeno in parte, perchè, in questo momento temporale, la terza globalizzazione del pianeta è in mano all'impero americano e difficilmente, nel breve termine, assisteremo ad un nuovo cambio di comando e allo smantellamento del sistema globalizzato.


11° capitolo tratto da GEOPOLITICA UMANA di Dario Fabbri




GLOBALIZZAZIONE (O DELL'IMPERO UNIVERSALE)


 

L’impero romano nella sua massima estensione.


La globalizzazione è sinonimo secco di egemonia americana, in latino pax americanaA determinare l’esistenza di un unico mercato planetario non è lo sviluppo tecnologico che consente ai flussi finanziari di attraversare la geografia, né alcuna antropologica predisposizione agli scambi. La globalizzazione è conseguenza della superiorità della Marina statunitense, capace di occludere il passaggio alle altre Marine negli stretti, negli istmi. Da Gibilterra a Suez, dai Dardanelli a Panama, da Bāb el-Mandeb a Hormuz, da Malacca a Bashi. Poiché nel mondo circa il 90% delle merci transita via mare, tale capacità, come capitato in passato ai romani e agli inglesi, ha trasformato il planisfero in un unico mercato.

La globalizzazione non afferisce in alcun modo al libero commercio. Raccontare l’unico mercato globale come intrinseco al paritario scambio di merci tra le nazioni è la glassa (leggi propaganda) della superiorità americana, non la sua sostanza. Peraltro, il libero commercio (in ideologia: liberismo) non è mai esistito, né mai esisterà. Non c’è mai stato giorno sulla Terra senza che una comunità applicasse dazi ai prodotti di un’altra comunità. Così la dimensione tecnologica è strumento della globalizzazione, non la sua causa.

Con il crollo dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti ascesero a egemone globale. E l’assenza di uno sfidante sui mari germinò l’attuale “mondializzazione”, come detta dai francesi.

Visto da Arlington, in Virginia, dove ha sede il Pentagono, il mondo è soprattutto composto da mari e oceani. Negli uffici del Dipartimento della Difesa, il planisfero è diviso in comandi militari a cui è assegnata una specifica regione. Dal Nordamerica (Northcom) all’Europa (Eucom), dal Sudamerica (Southcom) al Grande Medio Oriente (Centcom), dall’Africa (Africom) all’Indo-Pacifico (Indopacom). Partizione di patente matrice strategica.


Il mondo visto dalla Marina americana


Nello specifico sono la III, la IV, la V, la VI e la VII flotta della Marina a pattugliare i quadranti atlantico, mediterraneo, indiano e pacifico, dove transitano tutte le merci scambiate nel mondo. Sono queste flotte a decidere quotidianamente dell’accesso alle rotte marittime.

A dispetto di ogni previsione che immaginava un incremento degli scambi effettuati per via telematica o aerea, negli ultimi venticinque anni i traffici realizzati via mare sono cresciuti del 300%. Il trasporto navale resta certamente il più conveniente, ma anche l’unico su cui la superpotenza può intervenire ad libitum e che incentiva fortemente.

Oltre al controllo dei mari, la globalizzazione prevede lo scientifico perseguimento del deficit commerciale e del debito pubblico da parte dell’egemone per mantenere legati a sé i soggetti inseriti nella propria costellazione. Nel 2023 gli Stati Uniti esportano appena il 13% del loro PIL e registrano un deficit commerciale di 632 miliardi di dollari, ovvero il modo migliore per diffondere nel globo il dollaro e rendere alleati e avversari involontari partecipi del destino americano.

Già prima dell’implosione sovietica, l’America aveva posto le fondamenta della globalizzazione marittima che avrebbe centrato con l’estinzione del nemico.

A sancire tale struttura in forma preventiva fu la conferenza di Bretton Woods del 1944. Oltre a riconoscere il dollaro quale moneta di riserva globale, questa palesò lo schema di dipendenza che Washington avrebbe elaborato nei confronti dei clientes. Gli americani avrebbero consentito ai Paesi occidentali di accedere al proprio mercato senza pretendere lo stesso trattamento, quanto l’osservante aderenza alla comunità atlantica.

In barba a ogni fraintendimento di matrice economicistica, il deficit commerciale tornò arma in possesso della potenza dominante, connotato naturale della primazia.

Non solo. Tutti i Paesi partecipanti si impegnavano a esportare soprattutto attraverso gli oceani, sotto sorveglianza della Marina statunitense, con il potenziale strangolamento del sistema produttivo altrui che questo comportava. Nelle lungimiranti parole del diplomatico statunitense William Culbertson, inviato nella cittadina del New Hampshire: «Soltanto accogliendole nel nostro sistema di scambi preferenziali le nazioni accetteranno l’impero americano».

La spiccata profondità egemonica degli americani si manifestò nell’abbandono del mercantilismo e nell’adozione di una politica economica eminentemente strategica. Passaggio obbligato di qualsiasi costruzione globale e marittima, allora inedito assoluto nella storia americana.

Dal 1991, alba della globalizzazione, Washington ha volontariamente aumentato il proprio deficit commerciale misurato in merci, passato dai 31 miliardi di dollari del 1991 ai 750 miliardi del 2016 (502 miliardi se si calcolano i servizi).

Specie in rapporto ad alcuni interlocutori primari. A partire dalla Cina, che negli anni Novanta abbracciò il capitalismo, dunque il sistema americano, e nel 2001 fu accolta nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Da allora le esportazioni cinesi verso l’America sono aumentate del 250%, con il 60% delle merci prodotte nella Repubblica Popolare che attraversa gli oceani, mentre il surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti è schizzato dai 12 miliardi del 1991 ai 347 miliardi del 2022.

Il ruolo di compratore di ultima istanza è massima prerogativa della globalizzazione, essenziale per causare dipendenza negli altri, per condurli a sé. E trasformare la propria moneta in riserva globale.

Nel pagare le merci straniere, il perno del sistema pone materialmente la propria moneta nelle mani degli altri, costringendoli a denominare i loro risparmi in valuta straniera e a partecipare del suo benessere.

La Federal Reserve stampa la banconota da cento dollari per esclusivo uso esterno, spedita per il mondo in carichi da 640 mila pezzi ciascuno. È l’unico biglietto su cui non figura alcuna immagine della città di Washington. E due terzi dei suoi esemplari circolano fuori dai confini degli Stati Uniti, con una diffusione all’estero aumentata del 105% tra il 1990 e il 2020 (il 77% del totale stampato).

Valga l’interrogativo dell’economista Ruth Judson. «Gran parte degli americani non ha mai visto un biglietto da cento dollari, tuttavia questi costituiscono l’80% delle banconote emesse dalla Federal Reserve. Ma allora chi li possiede?».

Per la superpotenza condizione indispensabile e ingrata, perché priva di competitività molte industrie statunitensi. Negli anni Settanta gli americani distrussero volontariamente la manifattura nazionale, affinché potessero importare dagli altri, controllando inizialmente circa metà delle rotte marittime, poi tutte le altre. Da allora il Midwest, storica regione di prima industrializzazione, è detto “Rust Belt”, a indicare la catena di montaggio arrugginita per assenza di utilizzo. Iniziativa perfettamente coerente per un impero che si avviava a essere globale, imitata in maniera sconsiderata negli anni Ottanta dalla Gran Bretagna, allora una media potenza, per velleità osmotica.

Al deficit commerciale si aggiunge la costante crescita del debito pubblico, ormai oltre i 33 mila miliardi di dollari, la più gigantesca cifra mai registrata nella storia dell’umanità. Detenuto attraverso i titoli del Tesoro d’oltreoceano da ogni nazione del globo interessata o costretta a vivere nel sistema washingtoniano. Compresi i nemici, indotti con loro sommo dolore a puntellare finanziariamente la superpotenza. Per mantenere apprezzata la moneta del più grande mercato del mondo, per conquistare la benevolenza del Paese che perlustra le rotte navigabili.

Specie la Cina, che nel 2023 possiede 821 miliardi di debito americano, obbligata a devolvere al nemico un’immensa liquidità che dovrebbe utilizzare per risolvere le proprie deficienze strutturali (specie domestiche). Cifra che, finché sarà egemone, l’America non ripagherà mai nella sua interezza.

Fu negli anni Ottanta che Washington si trasformò da creditore a principale debitore internazionale, persuadendo i contribuenti stranieri ad accollarsi i costi del riarmo americano in funzione antisovietica.

Dalla fine della Guerra fredda, con la nascita della globalizzazione, il debito pubblico statunitense è balzato da 3.665 miliardi di dollari agli attuali 33.045 miliardi, posseduto per il 32% da governi stranieri, alleati e rivali. Su tutti, oltre alla Cina: il Giappone, che detiene 1.090 miliardi di dollari in buoni del Tesoro; il Regno Unito (217 miliardi); l’India (118,2 miliardi); la Germania (82,2 miliardi); la Russia (86,1 miliardi); la Corea del Sud (93,2 miliardi); e il Messico (47,1 miliardi).

Durante la presidenza di George W. Bush furono soprattutto giapponesi e cinesi, attraverso l’imponente sottoscrizione di buoni del Tesoro statunitense, a sponsorizzare la guerra al terrorismo che manteneva l’egemone globale impantanato in teatri secondari.

Anziché un segnale di vulnerabilità, come vorrebbe l’interpretazione antimperiale del sistema internazionale, il legame finanziario palesa l’inferiorità della periferia nei confronti del centro. Esportatori netti, i satelliti sono costretti ad acquistare bond americani per mantenere apprezzato il dollaro e reinvestire il surplus commerciale nel più stabile luogo della Terra, l’unico a non aver mai conosciuto cambi di regime. In nuce: per mantenere il benessere del loro principale acquirente, nonché garante delle vie di comunicazione.

Dentro l’acquisto coatto del debito americano, per continuare a esportare verso gli Stati Uniti e solcare le rotte marittime presiedute dall’antagonista, oggi la Cina si trova nella cosiddetta “trappola della sterlina”. Trattasi del rapporto d’interdipendenza tra due Stati rivali, nel quale il governo che possiede titoli o riserve altrui non può disfarsene se non disintegrando sé stesso.

Il perfetto contrario della vulgata che vuole Pechino in grado di rovesciare Washington dismettendone il debito pubblico. Pregiudizio che non spiega perché mai la Repubblica Popolare decida ogni anno di sottrarre miliardi al proprio bilancio per puntellare la ricchezza del suo principale nemico.

A sperimentare i devastanti effetti di tale giogo fu nel primo dopoguerra la Francia della Terza Repubblica. Per prevenire l’ulteriore apprezzamento del franco, corroborato dal surplus commerciale e dal rimpatrio di capitali, tra il 1926 e il 1931 la Banca di Francia incassò un’enorme quantità di sterline, valuta che all’epoca costituiva la metà delle riserve internazionali. Eravamo al crepuscolo della globalizzazione britannica, identica per telaio a quella statunitense.

Preoccupato dalla continua svalutazione della divisa britannica che erodeva il valore delle riserve e contrario a puntellare ulteriormente un avversario storico, nel 1928 il governatore della Banca centrale francese, Émile Moreau, ordinò la liquidazione del portfolio monetario.

In tre anni Parigi convertì i pound in dollari, quindi passò all’oro. La decisione provocò un terremoto finanziario. La repentina vendita delle sterline sbriciolò le restanti riserve nazionali, conducendo la Banca di Francia a un passo dalla bancarotta e costringendo il governo Laval a intervenire per salvare l’istituto.

Stessa sorte toccherebbe oggi alla Cina se provasse ad affrancarsi dal sistema statunitense con la medesima tecnica. Ne sono convinti gli analisti del Pentagono, che internamente definiscono impraticabile una totale dismissione dei titoli americani da parte pechinese.



La globalizzazione britannica


La Repubblica Popolare conquisterebbe un margine di manovra solo se tramutasse lo yuan nella moneta di riserva globale, ma l’impresa resta ai limiti dell’impossibile, nonostante i proclami. Anche se avallasse l’apprezzamento della divisa nazionale e accettasse un deficit dei conti con l’estero, il governo cinese manca di una Marina in grado di insidiare quella statunitense, nonché della stabilità e della trasparenza richieste dagli investitori stranieri.

Siamo convinti di vivere tempi straordinari, ma il meccanismo della globalizzazione corrente è identico a quello del passato. E questa finirà esattamente come le altre. Nei secoli passati si sono registrate almeno altre due globalizzazioni.

Quando Roma sconfisse Cartagine seppe estendere la sua potenza sulle rotte marittime che attraversavano il Mediterraneo: abbastanza per costruire una globalizzazione strutturale, sebbene non letteralmente geografica.

Medesima sostanza della seconda globalizzazione, quella inglese, sancita anche qui dalla formula latina, pax britannica. Esistita dalla metà dell’Ottocento con il controllo dei tracciati marittimi, la regolamentazione degli stretti e il massiccio popolamento dei territori d’oltremare, fu la prima per estensione geografica. Durò fino all’alba del XX secolo, quando la Prima guerra mondiale innescò il declino del Regno Unito, accelerato nel 1942 dall’appropriazione americana dei suoi principali avamposti nell’Atlantico. Come Washington, anche Roma importava dalle colonie ogni risorsa primaria. Stesso approccio del Regno Unito, per questo tuttora dotato di una cucina disseminata di pietanze straniere.

Speculare alla globalizzazione marittima è la struttura di Internet, altrettanto sostanziata dall’elemento nautico. Fenomeno profondamente americano, coincidente con il suo dominio planetario, nella versione attuale la rete globale è stata sviluppata da privati, ma è nata nel ventre del Pentagono ed è tuttora funzionale alle esigenze strategiche della superpotenza (vedi capitolo XII).

In questa fase la Repubblica Popolare vorrebbe gemmare una controglobalizzazione senza averne i mezzi (marittimi). Ovvero le nuove vie della seta (One Belt, One Road nello slogan anglofono), teorica alternativa alla pax americana.

Progetto onirico centrato sulla costruzione di infrastrutture in Asia, in Europa e in Africa, per muovere le merci prodotte nell’Impero di Mezzo. Pensato per rendere più profondo il mercato interno, per smaltire il surplus industriale, per sottrarsi allo strapotere marittimo degli Stati Uniti e allacciare notevoli porzioni del globo al benessere cinese, manca del principio antieconomico che è sostrato della primazia globale.

Per questo le nuove vie della seta sono state accolte con riserva anche dai Paesi che vi hanno aderito, felici di beneficiare degli investimenti pechinesi, molto meno di sposare i piani commerciali altrui. Al di là della liquidità assicurata nell’immediato dall’acquisto di quote nei porti greci o spagnoli, è impossibile stabilire quali siano nel lungo periodo i benefici per le nazioni coinvolte nel progetto. Monumentale incongruenza che impedisce di avvicinare gli Stati Uniti.

Pure fossero costruite nella loro interezza – obiettivo pressoché irrealizzabile – queste consentirebbero a Pechino di aumentare le sue esportazioni, mentre il cardine del sistema deve necessariamente essere un importatore netto.

Per sostituirsi agli Stati Uniti, la Repubblica Popolare dovrebbe creare dipendenza tra sé e i membri del sistema, garantendo a questi totale accesso al proprio (risicato) mercato domestico. Senza pretendere perfetta reciprocità. Possibilmente insidiando il controllo delle rotte marittime.

Anche accettando l’eventuale gravare sugli strati più fragili della popolazione interna dei meccanismi della globalizzazione, generati soprattutto dalla necessità di creare dipendenza tra il centro e la periferia dell’impero. Come avviene negli Stati Uniti.

Qui l’arrivo in massa di prodotti cinesi e la delocalizzazione perseguita da molte industrie nazionali, con conseguente dismissione di interi settori produttivi, hanno prodotto un impoverimento netto della classe medio-bassa, che nell’ultimo decennio ha perso il 45% della sua ricchezza e quasi tre milioni di posti di lavoro.

Le amministrazioni statunitensi hanno promesso in più occasioni di rilanciare le manifatture interne, con tanto di legislazione pensata per ricondurre in patria la produzione (Inflation Reduction Act del 2022). Al netto di un minore ritorno di alcune industrie, tali propositi vanno giudicati impossibili. Se tornassero Paese esportatore, gli Stati Uniti distruggerebbero la globalizzazione e la propria egemonia universale. Esito inaccettabile e impossibile per la natura spontanea della costruzione imperiale. Eppure evenienza presa assai sul serio dalle cancellerie europee, sicure che Washington possa tornare a esportare come un Paese qualsiasi.

Come scritto, negli anni di Donald Trump, nonostante i suoi strali, anziché diminuire il deficit commerciale americano è aumentato. Crescita indecifrabile senza lo strumentario della geopolitica umana.

Senza comprendere di cosa sia composta, è impossibile stabilire come e quando finirà la globalizzazione. In questi anni infuria il dibattito sullo stato dell’arte della pax americana, tra chi la considera già ampiamente defunta, chi rimane nel dubbio e chi la vede resistente.

Centrata sul controllo delle rotte marittime, come capitato ai romani e ai britannici, la globalizzazione americana terminerà quando uno sfidante saprà insidiarne la superiorità marittima e controllare almeno un mare di pertinenza. Non certo in caso di applicazione di dazi nei confronti dei suoi membri: come detto, la globalizzazione non è sinonimo dell’impossibile liberismo.

L’impero romano d’Occidente crollò dopo la sconfitta nella battaglia navale di Capo Bon (468), quando l’immensa flotta allestita assieme a Costantinopoli fu distrutta dai vandali. L’impero britannico smise di essere egemone durante la Seconda guerra mondiale, quando non riuscì a interdire la Marina tedesca e fu costretto a cedere agli americani le piattaforme nell’oceano Atlantico.

Oggi la Cina, massimo sfidante degli Stati Uniti, non controlla neppure un mare rivierasco, come dimostrato dall’incapacità di conquistare Taiwan, posta ad appena 160 chilometri dalla costa. In assenza di tale scatto, la globalizzazione resterà intatta. E con essa l’egemonia americana.

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