04 settembre 2023

GEOPOLITICA: IL GRANDE GIOCO DEL SAHEL

Donne e bambini in Burkina Faso

 
Continuiamo a vedere un immensa umanità che si sposta da luoghi sempre più inospitali e devastati, oppressi da una politica locale e coloniale condita con violenze inaudite di carattere religioso. Occorre, allora, conoscere quello che capita alla fonte per comprendere i reali motivi di questa terribile diaspora. A seguire l'Introduzione del libro "Il grande gioco del Sahel".



IL GRANDE GIOCO DEL SAHEL, 2016 

Bollati Boringhieri 

Gli autori

Marco Aime insegna Antropologia culturale all’Università di Genova. Autore di studi sulle popolazioni alpine e sull’Africa, ha pubblicato numerosi saggi di studi antropologici. Tra gli ultimi presso Bollati Boringhieri: Timbuctu (2008), Cultura (2013) e L’isola del non arrivo. Voci da Lampedusa (2018).

Andrea de Georgio è giornalista freelance e Associate Research Fellow presso l’ISPI. Ha pubblicato Altre Afriche. Racconti di paesi sempre più vicini (2017). Suoi articoli sono apparsi su «Internazionale», «Limes» e altre testate; ha seguito il conflitto in Mali per «CNN», «Rainews24», «Radio 3», «Corriere della Sera», «La Stampa» e «Nigrizia».


Introduzione


Una cicatrice sul mondo

«In una nota all’Accademia delle Scienze del 1900, Auguste Chevalier faceva nascere la zona subsahariana del Sahel oggi riconosciuta dal mondo scientifico».

Edmond Bernus, Touaregs nigèriens


Nel 1931 l’allora Musée d’Etnographie di Parigi organizzò una delle più importanti missioni etnografiche, la cui finalità era esplorare, dal punto di vista etnografico, i possessi francesi in Africa nonché «acquisire» oggetti per il museo. Guidata dal celebre etnologo Marcel Griaule, la «Dakar-Djibouti» (così si chiamava la missione) attraversa da ovest a est l’intero continente, lungo la fascia subsahariana chiamata Sahel. Il nome deriva dall’arabo sahil, «confine», «sponda», intesa come approdo meridionale del Sahara, spesso descritto come «mare di sabbia». Quella riva tanto agognata dai viaggiatori medievali del Sahara, che attendevano di vedere comparire all’orizzonte il verde e le moschee di Timbuctu, Gao, Djenné, Agadez, Chinguetti per raggiungere città ricche e colte, che popolavano i racconti di tanti mercanti e cronisti dell’epoca. Per quei viaggiatori Sahel significava la fine del viaggio, la fine della sete, il riposo, la sicurezza, la ricchezza, l’altra faccia del deserto.

Una striscia lunga 8500 chilometri, vasta circa 6 milioni di chilometri quadrati, che attraversa dodici Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea), definita più dalle sue caratteristiche climatiche, ambientali e sociali che non da quelle geografiche o politiche. Non è semplice indicare i confini del Sahel: a nord chi è in grado di tracciare un confine netto con il Sahara? Sabbia e terra vanno via via fondendosi e ogni sera la prima sembra aver vinto la battaglia quotidiana. A sud, invece, la zona semiarida sfuma progressivamente nelle verdi savane delle grandi pianure solcate dai fiumi che si gettano nell’oceano.


 


Potremmo dire che esiste più di un Sahel: quello climatico-ambientale; quello storico, legato ai grandi regni dell’oro e alla religione islamica; quello culturale, caratterizzato dall’incontro tra la cultura araba e la cultura locale e oggi quello bellico-strategico, in cui si gioca una grande partita tra il terrorismo jihadista, gli Stati saheliani, le potenze straniere e la popolazione locale.

I limiti del Sahel climatico-ambientale coincidono più o meno con le linee pluviometriche: da 100 mm/anno a nord, 600 a sud. Quando le piogge rimangono sotto i 150 mm/anno, la vegetazione non riesce a raggiungere una consistenza tale da rallentare il trasporto di sabbia del vento sahariano.

Per chi arrivava da nord, era la terra in cui l’Africa ricominciava a vivere, a essere popolata; per chi arrivava da sud era l’inizio della fatica e della solitudine. Una frontiera vera e propria, dove a incontrarsi non sono state solo le sabbie sahariane con le terre umide della savana, ma anche la tradizione delle popolazioni locali legate al mondo nero con la cultura arabo-islamica, venuta dall’est e giunta da queste parti attorno all’anno Mille. Le diverse combinazioni di queste due espressioni hanno dato vita a culture specifiche, che spesso mescolano tratti dell’una o dell’altra, facendoli convivere in una dimensione nuova.

La religione del Profeta non ha solo rimodellato le società locali sul piano culturale, ma anche su quello economico. L’islam, infatti, ha connesso questa regione alla fitta e importante rete di scambi, commerciali e non solo, che attraversava il vastissimo mondo arabo-musulmano in epoca medievale. Grazie ai mercanti di lungo raggio il Sahel si trovò a dialogare con il mondo mediterraneo, con il Medio Oriente e con altre regioni dell’Asia centrale. Elementi questi, che hanno arricchito e reso sempre più sfaccettata la cultura delle popolazioni saheliane, importante propaggine meridionale del mondo islamico del tempo. Fu grazie a questi commerci e alle fatiche dei cammelli e dei cammellieri che nacquero in questa regione i grandi imperi africani di quello che chiamiamo Medioevo.

A partire dal XVII secolo però qualcosa inizia a cambiare. Siamo nel secolo delle navigazioni e diventa sempre più rapido e redditizio trasportare merci via mare, che non attraverso il deserto. Il vento lentamente cancella le piste, sempre meno battute dai mercanti. A poco a poco il cammello perde la battaglia con la caravella e il Sahara ripiomba nel suo silenzio e nella sua solitudine antica.

L’epoca coloniale vedrà diversi tentativi messi in atto dai colonizzatori, perlopiù francesi, per ricuperare queste terre e destinarle alla produzione agricola. L’imposizione di un modello agricolo destinato al mercato portò però da un lato a uno scardinamento delle tradizioni e degli equilibri locali, mentre dall’altro l’eccessivo sfruttamento di un suolo già fragile di suo condusse a un impoverimento di quest’ultimo.

Già in ginocchio a causa di tutti questi eventi, le ripetute e prolungate siccità degli anni settanta distrussero vite e storie in tutte le regioni saheliane. Questa terra, che vide nascere e crollare alcuni tra i più importanti e ricchi regni e imperi dell’Africa, è progressivamente diventata una cicatrice sull’Africa. Il Sahara avanza rapidamente: a partire dal 1920 la sua superficie è aumentata del 10%1 conquistando la bellezza di 15000 chilometri quadrati all’anno. L’80% delle terre del Sahel è degradato, in seguito a un aumento medio della temperatura di 3-5 °C. Ogni dodici mesi nel Sahel nasce una Calabria di sabbia e sassi. Sahel non è solo una descrizione geografica; oggi più che mai è una condizione di vita, una terra tra le più aride al mondo.

In una classifica mondiale di 189 paesi, redatta sulla base dell’ISU (Indice di sviluppo umano) adottato dalle Nazioni Unite, che viene calcolato sulla base di tre fattori: longevità, conoscenza (istruzione e informazione) e potere di acquisto, i paesi saheliani risultano così classificati: Mauritania 157°, Nigeria 161°, Senegal 168°, Sudan 170°, Mali 175°, Eritrea 180°, Burkina Faso 182°, Sud Sudan 185°, Ciad 187°, Niger 189°. L’indice ottimale è pari a 1 e per avere un metro di paragone si va dallo 0,957 della Norvegia, prima in classifica, dallo 0,892 dell’Italia allo 0,512 del Senegal fino allo 0,394 del Niger.2

Gli effetti della comparazione sono talvolta paradossali: il PIL del Mali, un paese grande quasi quattro volte l’Italia con 20 milioni di abitanti, è pari a 17 miliardi di dollari. Una cifra che corrisponde al fatturato dei supermercati CONAD o della Sony. Un maliano consuma in un anno 153 kw/h di elettricità, contro i 4703 di un italiano, gli 11000 di uno statunitense, per non parlare dei 19300 di un kuwaitiano. Gli Stati Uniti consumano 61 barili di petrolio ogni 100 abitanti, noi 24, il Senegal 3, il Burkina Faso 1, tutti gli altri Stati saheliani meno di 1. Stesse proporzioni anche per il consumo di gas naturale che risulta di 2308 metri cubi per abitante negli USA, di 1204 in Italia, 4 nel Senegal, meno di 1 per tutti gli altri paesi in questione. Condizioni che riflettono anche la speranza di vita, che è di 56 anni nel Burkina Faso, 51 in Ciad, 60 in Mali, 63 in Mauritania, 62 in Senegal.

Si potrebbe continuare, ma appare chiaro che ci troviamo a fare i conti con un territorio profondamente segnato da impoverimento e crisi ambientali, accompagnati e talvolta indotti da cattivi governi, tutti fattori che favoriscono destabilizzazione e caos, le cui conseguenze sono: migrazioni, traffici illeciti e terrorismo.

Il surriscaldamento globale favorisce la desertificazione che affligge, tra le altre, molte regioni del Sahel, dove le siccità prolungate mettono a rischio l’agricoltura di sussistenza, ma i danni non si limitano solo a una perdita di produzione: la malaria si sta diffondendo in zone dove prima non era registrata e così anche il virus zika. I cambiamenti climatici sono anche causa dell’estinzione di molte specie animali, che sono talvolta fonte di cibo per le popolazioni locali. Piante e animali africani sono, infatti, abituati a un clima molto caldo ma pressoché costante, e quindi hanno una ridotta «tolleranza termica»: un piccolo aumento di temperatura potrebbe essere fatale.

È stato calcolato che l’Africa si surriscalderà un po’ meno del resto della Terra, ma nelle regioni di Sahara/Sahel la temperatura potrebbe salire di 5-7 °C. Qui il 70% della popolazione è rurale e i raccolti potrebbero diminuire del 30-35%, con un conseguente aumento di profughi costretti a cercare sussistenza altrove.

Il lago Ciad, che era il settimo lago del mondo, si è ridotto di 13 volte. Dal 1962 le acque si sono abbassate di 4 metri, riducendo la superficie del 90%: da 28000 chilometri quadrati si è passati a 1400. Questa penuria di risorse è anche alla base dell’aumento di tensioni tra pastori e contadini, che da sempre vivono situazioni conflittuali che venivano però regolate dalle consuetudini tradizionali. Ora, invece, l’irregolarità delle piogge rende difficile pianificare lo scambio tra i due e tali dispute, complice anche l’infiltrazione dei jihadisti, si trasformano spesso in scontri cruenti, che causano centinaia di morti. In tale contesto di progressivo impoverimento, si insinuano organizzazioni terroristiche come Boko Haram che hanno buon gioco a reclutare adepti tra popolazioni spesso ridotte allo stremo. Ecco una delle molte conseguenze del cambiamento climatico: l’aumento delle temperature in Africa dal 1980 ha incrementato il rischio di guerre dell’11% e negli ultimi vent’anni l’80% dei paesi più fragili africani ha visto un conflitto. Nel 2017 il 93% delle persone arrivate in Italia provenivano dall’Africa e in particolare dal Sahel.

Il Mediterraneo rischia fortemente di diventare una zona di frontiera climatica tra un’Europa ricca e un’Africa impoverita. Dal 2008 una media di 26,4 milioni di persone all’anno sono state spinte a migrare per calamità naturali. Gli esperti calcolano che nei prossimi trent’anni circa 135 milioni di persone saranno costrette a lasciare la propria terra a causa del degrado e delle siccità. Solo l’Africa ha un potenziale di 70 milioni di persone che potrebbero abbandonarla entro il 2030. Entro il 2050 potrebbero essere 200 milioni.

Per questo abbiamo deciso di inserire nel titolo del libro l’espressione «il grande gioco», una esplicita citazione del celebre testo di Peter Hopkirk relativo alle complesse vicende che si intrecciarono nell’Asia centrale durante l’Ottocento.3 Quelle regioni erano contese tra la Russia zarista, che cercava di espandersi a nord, e la Gran Bretagna, che temeva l’invasione dell’India e cercava di allargare il suo impero coloniale a nord. Una zona di frontiera dove giocare una complessa e a volte cruenta partita a scacchi. Anche il Sahel è sempre stato terra di frontiera, luogo di incontri e di scontri: qui si sono incontrate la cultura arabo-islamica con quelle locali animiste, si sono scontrati eserciti di regni diversi, invasori di ogni tipo e anche oggi è teatro di una difficile e violenta partita a scacchi tra Stati nazionali, ex potenze coloniali, nuovi protagonisti come la Cina e una galassia di organizzazioni, a volte in conflitto tra di loro, ma tutte ispirate da una lettura fanatica e strumentalizzata del Corano.

Una «corsa al Sahel» a cui partecipano anche diversi paesi europei, tanto le ex potenze coloniali (Francia e Inghilterra) quanto, negli ultimi anni, Stati storicamente meno presenti a queste latitudini, come Germania, Spagna e Italia. Vecchi e nuovi attori che, nel riposizionamento geopolitico globale in atto, usano la retorica della lotta contro la minaccia jihadista e del contrasto all’emigrazione «irregolare» verso l’Europa per coprire la penetrazione economica di ampi mercati emergenti e le mire neocoloniali verso le ricchezze inesplorate di queste terre: uranio (che Francia e Cina estraggono dalle miniere del Niger), oro, diamanti, petrolio, gas naturale, bauxite, cobalto, nickel, legname pregiato, pietre preziose, acqua, terra. Soltanto per citare le principali.

Il nostro paese, in questa regione fino a pochi anni fa percepita come lontana, periferica e poco strategica per la politica estera italiana, recentemente ha rinforzato la diplomazia – con l’apertura delle ambasciate in Niger (2017), Guinea Conakry (2018), Burkina Faso (2018) e Mali (deliberata nel 2020) –, la cooperazione allo sviluppo e l’impegno militare, con il dispiegamento di ben due missioni al fianco dei francesi nella guerra al terrorismo neojihadista: Deserto Rosso in Niger (dal 2017) e Task Force Takuba fra Mali, Burkina Faso e Niger (da marzo 2021). Una militarizzazione, quella in scena nel Sahel, che stratifica i conflitti intensificando la pressione sulle popolazioni locali, come sempre in guerra le principali vittime sacrificali dei giochi di potere. Milioni di persone quotidianamente tenute in scacco dalle angherie di eserciti regolari e gruppi armati, milizie etniche e signori della guerra, narcomafie e jihadisti vari, politici corrotti e uomini d’affari senza scrupoli.

In questo quadro dalle fosche tinte l’Unione Europea, sempre più imbrigliata nella propria arroganza ombelicale, ha recentemente rinnovato l’interesse verso il Sahel soprattutto in funzione del tentativo – finora fallito – di controllare i flussi migratori e la minaccia terrorista che derivano dall’instabilità e dal degradarsi del tessuto sociale dei paesi di questa regione. L’esternalizzazione dei confini e della sicurezza comunitaria – sancita dal Forum de La Valletta del novembre 2015 che ha ridefinito i rapporti multilaterali e bilaterali fra Europa ed Africa – ha trasformato l’Africa occidentale, e in particolare il Sahel, nella frontiera meridionale della caserma Europa. Il nesso fra migrazioni, sicurezza e sviluppo creato e imposto con il Trust Fund de La Valletta è la tomba della cooperazione internazionale, o almeno delle sue forme d’ispirazione cattolica e terzomondista. «Il sottosviluppo non è una fatalità se si fanno le scelte giuste. Bisogna scegliere fra lo champagne per qualcuno o l’acqua potabile per tutti» diceva Thomas Sankara.

Nonostante si senta sempre più spesso parlare, nei media come nella politica italiana, di Sahel, la percezione di questa regione da parte della società civile italiana, europea e, più in generale, occidentale poggia ancora su diversi pregiudizi infondati. Obiettivo di questo libro è donare alcune chiavi interpretative per decostruire tali preconcetti distorcenti, contribuendo a far uscire dalla coltre di alterità e lontananza queste terre ricche di cultura, ridonando loro la dignità storica, politica e umana che meritano. «Non abbiamo avuto lo stesso passato, voi e noi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro», scriveva molti anni fa un illuminato Cheikh Anta Diop. Oggi quel futuro comune è arrivato. A noi, esseri umani curiosi che non si accontentano delle versioni ufficiali, spetta il compito di districare i fili della Storia e delle sue innumerevoli contronarrazioni per cercare di comprendere e affrontare al meglio le sfide comuni dell’attualità.

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