03 settembre 2024

PENSIERI STUPENDI: La mente vola di Giorgio Giannoni

Foto da Città della Spezia
 

La mente è qualcosa di stupefacenteUn tesoro che soddisfa il desiderioUno scrigno di ogni possibile cosa

Aurora,2012  Franco Battiato


Qualcuno in questi giorni ha sottolineato come ci siano sempre personaggi, in quel di Sarzana o dintorni, che hanno in repulsione il festival della mente. Che ne parlano sempre male e a sproposito, attirandosi le pernacchie e gli strali di una maggioranza di cittadini che, ad onta di ogni ideologia o parte politica, è da tempo unita sotto l'egida del santo festival.


Cominciato quest'ultimo in tempi di governo progressista, ha lentamente intaccato le certezze anticomuniste delle ultime nuove consigliature diventando, di fatto, un evento inderogabile ed intoccabile, da mantenere nel corso dei secoli, a prescindere. Un poco come la small-calandriniana che continua, inevitabilmente, la sua esistenza sebbene compressa in metraggi sempre più piccoli e microscopici del suolo cittadino, del tutto avulsa da un reale contesto artistico. Se ricorderete, il passaggio dal progressismo piddino al celodurismo totian-neofascista aveva portato, nel castrum, ad alcune prese di posizione da parte dei nuovi governanti più reazionari, contro la celebrazione dei fasti culturali del festival. Perchè, si chiedevano alcuni, un giunta di destra conclamata dovrebbe mantenere un consesso di relatori sinistroidi che non avevano nessuna remora a pontificare contro il nuovo avanzante sia a livello nazionale che locale? Una diatriba che, evidentemente, poneva l'accento su un qualcosa di politicamente presente, vissuto come l'ennesimo esempio, mai veramente digerito, che a sinistra si potesse fare cultura  e magari dire cose interessanti ma soprattutto "elevate". Insomma, il solito senso di inferiorità che la destra da sempre e, purtroppo per loro, mostrava, in sintonia con la loro visione conservatrice, statica a tratti reazionaria e priva di reali voli pindarici culturali. Qualcuno, inopinatamente parlò, addirittura, di abolire il festival, se non che altri più realisti del re fecero notare  il numero fortemente in crescita della presenza turistica in quei giorni di fine agosto, semplificando, di fatto, ogni ragionamento e convertendo al pragmatismo più becero anche i più refrattari a quella cultura progressista (potremmo forse dire, oramai, banalmente borghese) che faceva del festival un fiore all'occhiello della città. Oggi, infatti, tutto è ammesso, tutto è diventato liquido. Gli argomenti festivalieri si mescolano e si atrofizzano, le denunce si diluiscono, i temi si semplificano e ogni cosa si perde nella relativa numerosità e brevità  degli interventi con l'ovvio rimando all'acquisto del libro di prammatica. La stessa nuova consigliatura è diventata una delle tante copie delle ultime consigliature piddine. Qualche cosa è stata fatta, altre sono rimaste nel limbo, promesse ed errori si succedono nella stessa maniera e il festival della mente anche sotto di loro, immancabilmente, ha continuato la sua valenza di attrattore turistico, elargitore di botte di cultura a gettone capaci di far credere a molti che ascoltare una relazione su argomenti cultural-umanistici-scientifici possano attivare qualche area nascosta del cervello, cosicchè si possa imparare di più e vivere meglio la nostra quotidianità. E' una terapia questa praticata in tutta Italia da un'infinità di festival di ogni tipo, cambia solo la località e il nome del preparato ma i benefici "culturali" rimangono gli stessi. Come alle terme si giunge nel luogo, ci si registra alla reception, ci si mette in fila per le inalazioni, i bagni, i massaggi, le saune (soprattuto nei tendoni) e si torna a casa migliorati nel corpo e, ovviamente nella mente. Badate bene, non fraintendetemi, non ho nulla contro il festival della mente, solamente non prendiamoci in giro. Come diceva Hanna Arendt, la società di  massa non vuole cultura ma svago. Ci si diverte, dunque, si fanno due passi per una cittadina, si incontrano amici e indigeni (contenti anche loro, parrebbe, di vedere gente nuova che passeggia per il castrum, solitamente deserto in altri momenti), si portano a passeggio gli immancabili amici a quattro zampe, pranzando e cenando tra le innumerevoli offerte che il nostro borgo offre, e lo svago, pardon la cultura, è assicurata tra Barbero e Oddifreddi e mille altri intellettuali che trovano la possibilità di soddisfare il proprio narcisismo e di avere remunerazioni extra. Niente di male, ovviamente, visto il mondo correre su questi binari e che la cultura non è più di destra o di sinistra. Anzi non è neanche più cultura, è un elisir contro la noia che deve essere abbattuta ad ogni costo. Un poco come la visita di massa alle Cinque Terre, una passeggiata per le bellezze di Venezia o Firenze, d'estate, intruppati come non mai, una crociera nell'Egeo (magari a Santorini, presa d'assalto dalle solite navi gonfie di villeggianti). Anche ieri la coda in Via Gramsci preannunciava mitiche relazioni nel tendone con tanto di divieto di portare bottigliette d'acqua all'interno. Dunque cultura e sofferenza, un binomio gesuitico che voleva mettere alla prova il vero zoccolo duro dei partecipanti e che mi ha ispirato una fatidica domanda: ma i sarzanesi ci vanno al festival della mente?

Giorgio Giannoni

Per coloro che volessero approfondire il concetto di cultura nella nostra società borghese:


UN'IDEA DELLA CULTURA

Henri Laborit da Elogio della Fuga

Le società della noia hanno bisogno dell'arte e della cultura, che vengono tenute nettamente separate dal lavoro e dalla produzione. Prima di tutto l'uomo definito colto è colui che ha tempo per diventarlo, colui che la professione lascia abbastanza disponibile o la cui vita professionale è inserita nella cultura. In una società commerciale, esser colti significa appartenere a quella parte privilegiata della società che può permettersi di diventarlo. Concedere a coloro che non hanno questa fortuna di partecipare alla cultura è in qualche modo permettergli un'ascesa sociale. E' un modo di gratificarli narcisisticamente, di migliorare il loro livello di vita, di arricchire l'immagine che di sé possono dare agli altri. E' probabile che questo processo derivi direttamente dal rammarico del borghese di non appartenere a un'aristocrazia inutile, non produttiva e colta. 

Ricordiamoci del Borghese Gentiluomo e dei suoi sforzi per acquisire l'infarinatura culturale legata alle caratteristiche della classe alla quale tenta di accedere. Il Borghese Gentiluomo fa parte di una razza prolifica che si è moltiplicata abbondantemente. Ma nella contestazione di classe, ormai dilagante, essendo interesse della borghesia conservare prima di tutto le prerogative gerarchiche di dominanza e non essendo più queste ultime basate esclusivamente sulla nascita e sul comportamento, ma sulla proprietà delle merci, essa accetta di buon grado di diffondere una cultura, soprattutto se vendibile. Pensa così di calmare il rancore suscitato dalle differenze, pur conservando quelle che le sembrano essenziali, il potere, la dominanza gerarchica. Così si sforza, assecondata dalle masse lavoratrici, di valorizzare la cultura, la "sua" cultura, sempre tenendola ostinatamente separata dall'attività professionale produttiva in cui il suo sistema gerarchico continua a essere intransigente. 

Sarà bene notare che la società industriale, benché abbia da tempo istituito esami e concorsi per stabilire graduatorie gerarchiche in base a cognizioni professionali, non ha mai fatto niente di simile per la cultura, perché essa è per lei solo uno stuzzichino, incapace di garantire un potere sociale. Non ha dunque bisogno di gerarchie né di controlli delle cognizioni "culturali". Essa spera in tal modo di calmare il malessere, di medicare le piaghe narcisistiche di coloro che non hanno potere, tanto più che, mantenendo una differenza di natura, una differenza fondamentale, tra attività produttiva e attività culturale, si può, in seno a quest'ultima, contestare il sistema gerarchico della dominanza che si è affermata nella prima. I campi sono separati, dunque non c'è da temere che l'espressione dell'immaginazione incida sull'oggettività della realtà sociale. Anche nel caso in cui apparisse possibile questo incontro, bisognerebbe ancora trovare, e riuscire a far funzionare, l'organizzazione sociale che permettesse di passare dai concetti alla pratica. D'altra parte, siccome l'accostamento potrebbe essere pericoloso,quasi sempre viene diffusa una cultura il cui contenuto semantico non sembra avere un'incidenza sociale contestatrice del sistema dominante. Ma qualora avesse questa incidenza, si potrebbe sempre sperare che fosse uno sfogo senza conseguenze.

 Alcuni psicosociologi non sostengono forse, e con un certo fondamento, che i film di violenza, lungi dal costituire un'incitazione alla violenza per lo spettatore, producono invece una trasformazione biologica analoga alla violenza attiva, senza averne gli inconvenienti? Gli chansonniers non sono mai stati un fattore indispensabile allo scoppio della rivoluzione. E la cultura autorizzata, asettica, pastorizzata non è più pericolosa degli chansonniers per l'ideologia dominante. E' come una valvola di sicurezza che non può scuotere la solida struttura delle dominazioni gerarchiche, perché non si fabbricano soldi a parole.

 Solo nei paesi in cui il potere gerarchico non è più legato al possesso delle cose, ma al conformismo ideologico, le parole riacquistano importanza, e la cultura, che non è in vendita, non può più permettersi di essere deviante. Nei paesi capitalisti, invece, il sistema, cementato dalla potenza adesiva dei beni di consumo, accetta ogni idea, anche rivoluzionaria, purché possa essere venduta. Per questo non fa che aumentare la coesione del sistema ed è la dimostrazione del liberalismo ideologico della società che la permette.

Ma in realtà la ragione principale, secondo me, del sedicente liberalismo culturale dei paesi occidentali deriva dal fatto che la cultura autorizzata, o addirittura favorita, è un groviglio indescrivibile che permette di infiorare la conversazione con citazioni latine o straniere e di issare sulle drizze le bandiere di riconoscimento della società borghese. E' una cultura per uso esterno, come il bottoncino di metallo che adorna l'occhiello dei membri di un rotary. Facilita, come i gradi, il comportamento altrui nei confronti del livello gerarchico che abbiamo raggiunto, oppure permette, se la vita non ci è stata propizia, di mantenere la nostra appartenenza, pur senza avere un'attività produttiva ricompensata dalla promozione sociale.

Tale è il disordine di questa cultura che essa non può costituire nessun pericolo per un sistema socioeconomico. E' una cultura senza struttura, spezzettata e ognuno può scegliere nel magazzino culturale i pezzi che sembrano adattarsi meglio alla sua gratificazione, secondo l'apprendimento di vita sociale che gli è proprio. In queste condizioni, difficilmente corre il rischio di incontrare contraddizioni reali, generatrici di angoscia e di creatività.

Questa cultura, infine, è un cumulo di giudizi di valore. E come potrebbe essere diversamente, se i meccanismi che mettono l'uomo in grado di vedere, di sentire, di pensare, la chiave dei suoi comportamenti di attrazione o di repulsione, di quelle che vengono chiamate le sue scelte, gli è stata nascosta fin dall'infanzia sotto il guanciale e non gli è mai capitato di rifarsi la culla, perché è compito della madre?

Finché gli uomini ignoreranno che niente nell'umana aderenza al mondo, niente di ciò che si accumula nel loro sistema nervoso è isolato, separato dal resto, che tutto si collega, si organizza, si informa in lui, obbedendo a leggi rigorose, la maggior parte delle quali non sono ancora state scoperte, accetteranno la distinzione tra uomo che produce e uomo di cultura. Anche questa divisione è un fenomeno culturale, come credere nello spirito e nella materia, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, ecc. E tuttavia le cose si limitano a essere. E' l'uomo che le analizza, le separa, le suddivide, e mai disinteressatamente. All'inizio, di fronte all'apparente caos del mondo, ha classificato, costruito i cassetti, i capitoli, gli scaffali. Ha introdotto il suo ordine nella natura per agire. E dopo ha creduto che quello fosse l'ordine della natura, senza accorgersi che era il suo, che era stato stabilito secondo i suoi criteri e che quei criteri provenivano dall'attività funzionale del sistema che gli permetteva di entrare in contatto col mondo: il sistema nervoso.

L'uomo primitivo aveva la cultura della pietra scheggiata che lo univa, oscuramente ma completamente, al cosmo. L'operaio di oggi non ha neppure la cultura del cuscinetto a sfera che costruisce con gesti automatici, tramite una macchina. E per ritrovare il cosmo, per sentirsi parte della natura deve avvicinarsi alle finestrine che l'ideologia dominante accetta di aprire qua e là, nella sua prigione sociale, per fargli arrivare l'aria fresca E' un'aria avvelenata dai gas di scappamento della società industriale, eppure quest'aria viene chiamata Cultura.

Henri Laborit da Elogio della Fuga


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