29 aprile 2022

INCONTRO CON PAOLO CREPET-I SUOI LIBRI: Il Coraggio Vivere, amare, educare 2017

 

Paolo Crepet possiede la capacità di argomentare su un nucleo ben preciso di argomenti tutti interrelati fra di loro, riuscendo con grande maestria a mettere in evidenza i risvolti più interessanti dei comportamenti, dei vizi e delle virtù dell'essere umano e in particolare dei giovani. Anche questo libro, dunque, si rivela un messaggio ben preciso per armonizzare le nostre vite ad un'esistenza più misurata. A seguire le parole dell'Autore dall'Introduzione al libro, un capitolo dello stesso tra i tanti "coraggi" esaminati e a chiudere un breve, interessante video, in attesa, per martedi prossimo, di ascoltarlo direttamente, qui a Sarzana, dal vivo.

 



Il coraggio

Vivere, amare, educare


Anno: 2017
Editore: Mondadori

Un tempo il coraggio – nella sua accezione di ardimento fisico – era solo opera dell'umano, poi le macchine se ne sono impossessate: non più il guerriero armato delle sue proprie mani, ma di mitragliatrici, carri armati, lanciafiamme, cacciabombardieri. Un po' come accade ora con la tecnologia: fino a trent'anni fa occorreva pronunciarsi, scrivere, telefonare, dunque esporsi. Oggi si può comunicare, anzi si è indotti a farlo, senza un'interfaccia umana, dunque senza rischio, senza paura di compromettersi. E le umane virtù vengono delegate a ciò che umano non è. Così, anche il coraggio e la forza d'animo che vi è intrinsecamente connaturata stanno diventando sempre più un'astrazione virtuale, svuotata di senso, per uomini e donne che vagano senza bussola, giovani accecati dal presente e vecchi incartapecoriti nel ricordo.

Per fronteggiare «la più grande urgenza sociale odierna», Paolo Crepet propone a genitori, educatori e, in particolare, a quei «nativi digitali» che si accingono a esplorare la propria esistenza in una società ipertecnologica un «ipotetico inventario» di alcune declinazioni del coraggio in vari ambiti dell'esperienza umana (il coraggio di educare, di dire no, di ricominciare, di avere paura, di scrivere, di immaginare, di creare…). Un inventario concepito come un'associazione di idee, un brain-storming, un esercizio utile per stimolare adulti e non ancora adulti a ritrovare la forza della sfacciataggine e la capacità di resistenza che la vita ogni giorno ci chiede. Ma in queste pagine Crepet parla soprattutto di un'altra e più ambiziosa forma di coraggio. Quella che dobbiamo inventarci per creare un nuovo mondo, se non vogliamo che siano altri a inventarlo per noi; quella che i giovani devono riscoprire per non ritrovarsi tristi e rassegnati a non credere più nei loro sogni; quella che tutti devono scovare in se stessi per iniziare un rinascimento ideale ed etico. Perché, alla fine, il coraggio è la magica opportunità che permette di capire il presente e di costruire il futuro.

 

Il coraggio di bocciare

Nel bel mezzo dell’inverno ho scoperto che vi era in me un’invincibile estate.

ALBERT CAMUS

Ciò che non mi distrugge mi rende più forte.

FRIEDRICH NIETZSCHE

Se la scuola italiana conservasse le stesse caratteristiche di innovazione e di creatività che animano le esperienze di cui ho appena parlato, ne trarrebbe vantaggio non solo una nuova generazione di bambini, ma il Paese intero, anche in termini economici, perché crescerebbe una futura classe dirigente capace e virtuosa.

Invece, dalle elementari alle medie e alle superiori, si assiste a una sorta di inversione di marcia: il tasso di creatività tende ad azzerarsi, lasciando spazio a una burocrazia che sembra interessata soltanto a trasformare la scuola in un’azienda di scarsa qualità.

Non credo di essere l’unico a pensare che la scuola debba essere meritocratica. Non lo penso per scelta ideologica, ma perché è fondamentale insegnare ai nostri figli che nella vita bisogna imparare a fare bene qualunque cosa si stia facendo. Oggi, questo semplice principio di buon senso sembra addirittura vilipeso.

Non ho mai amato la scuola autoritaria, ma quella autorevole sì. Ai tempi miei, i maestri e le maestre usavano «mani pesanti» per impartire agli alunni le più semplici correzioni del comportamento. Ho conosciuto abbastanza bene la didattica sadica che prevedeva, oltre alle sberle, l’uso di strumenti correttivi come mettere in castigo dietro la lavagna o far inginocchiare sulle nocciole i bambini meno collaborativi: era l’estensione dentro le mura scolastiche di una cultura autoritaria e repressiva che dominava il clima familiare di quegli anni.

Superata, fortunatamente, la tentazione autoritaria, si è passati dall’altra parte: il «condono» didattico usato a garanzia di una pacificazione educativa sanciva sì la morte dei sistemi coercitivi, ma cedeva anche il passo a un laissez-faire sconcertante.

La cultura del lavoro proveniente dalla pubblica amministrazione ha, ormai da anni, prodotto effetti nefasti sulla scuola, pubblica e privata. Come ha giustamente sottolineato Ernesto Galli della Loggia in un articolo sul «Corriere della Sera» nell’aprile 2017, «il sistema d’istruzione italiano – così come gran parte di quello lavorativo – si regge sulle promozioni d’ufficio. Così la scuola rinuncia a selezionare gli studenti in base al merito».

In realtà si tratta di un fenomeno insito nell’idea alla base della formazione degli insegnanti. Per decenni la scuola è stata trattata da governi e sindacati come un serbatoio di voti e di consenso. Il principio è semplice: ti offro un posto di lavoro con un salario basso, ma non ti seleziono per merito né valuterò mai le tue reali competenze e capacità. Risultato: la professione dell’insegnante viene scelta non perché socialmente strategica, ma come una terra di nessuno, dove per entrare basta avere alcune (poche) conoscenze e, una volta entrati, non si deve più dimostrare a nessuno il proprio valore.

Se un docente viene scelto in base a questo criterio (solo di recente si comincia a ragionare in maniera diversa, anche se la parola «valutazione» continua a essere indigesta a buona parte del personale insegnante), non può certo essere lui/lei a ritenere che il merito diventi l’asse portante del compito didattico.

A una «didattica invertebrata» si è saldato il pernicioso «buonismo genitoriale», e l’innesto ha prodotto il disastro che le statistiche internazionali sottolineano da anni: così come il merito non fa parte del DNA di buona parte degli insegnanti, tantomeno i genitori sono portati a difenderlo. Le cronache parlano spesso di vere e proprie rivolte parentali contro il povero docente reo di voler bocciare chi non studia.

Questo cortocircuito deleterio è stato perfezionato da alcune norme ministeriali sul finanziamento degli istituti. Se una scuola ricorre a troppe bocciature, infatti, corre il rischio di non aver accesso a certi canali di finanziamento, di precludere al dirigente un avanzamento di carriera, o addirittura di essere soppressa e accorpata a un’altra a discapito del numero di insegnanti. Un preside, anche in seguito alle pressioni dei genitori degli alunni nullafacenti, potrebbe quindi intervenire sull’insegnante meritocratico per convincerlo a trasformare i quattro e i cinque in sei, e il gioco è fatto: tutti promossi, compresi gli asini.

Tra il 2015 e il 2016 la percentuale dei bocciati agli scrutini di fine anno è scesa dal 9 al 7 per cento; il numero dei rimandati a settembre è calato dal 25 al 22 per cento; il 99,5 per cento degli ammessi all’esame di maturità è stato promosso. Occorre anche tenere conto del fatto che questi dati variano sensibilmente da regione a regione: ci sono città dove tutti sono automaticamente promossi (i diplomati con il massimo dei voti in Puglia e Campania sono stati più numerosi che in Emilia, Lombardia, Piemonte, Toscana e Veneto) e altre dove resiste ancora un minimo di meritocrazia. La conseguenza è evidente: all’università arriveranno generazioni di studenti sempre meno preparati, ma sempre più convinti che anche la formazione superiore debba funzionare allo stesso modo. Cosa che sta puntualmente avvenendo, con il risultato che nessuna accademia italiana è tra le cento migliori del mondo. Classifica compatibile, fra l’altro, con l’alto tasso di nepotismo che caratterizza gli atenei italiani rispetto a quelli europei e americani.

Nel frattempo, come se questo non bastasse, abbiamo infarcito il Paese di istituti dove basta pagare una retta (in genere piuttosto salata) e la promozione è praticamente garantita.

La sommatoria di questi fenomeni porta a un risultato contraddittorio: nonostante la qualità della preparazione degli studenti che si iscrivono all’università decresca in ragione della minore selezione subita, gli iscritti all’università aumentano (solo nel 2017 il numero delle matricole è cresciuto del 4,3 per cento, con punte di oltre il 20, in gran parte a causa della riapertura di corsi di laurea a numero chiuso), mentre diminuisce il numero degli studenti che riescono a terminare gli studi: l’Italia è al penultimo posto in Europa per numero di laureati, subito prima della Romania.

Si continua a sbandierare la parola «merito», ma si critica ogni tentativo di valutazione dei livelli di apprendimento, proposti per esempio da Invalsi, e si tollerano diplomifici e università dove ogni anno si truccano i test d’ingresso, come è avvenuto recentemente sia per facoltà di medicina, sia per scuole di specializzazione.

Una generazione didatticamente «condonata» non può che finire a ingrossare il numero già enorme dei giovani che smettono di studiare precocemente e non intendono lavorare (anche perché non saprebbero cosa fare): le ultime statistiche dicono che sono più di tre milioni, con un costo pari a una manovra finanziaria.

Il caso della mamma che ha inviato attraverso WhatsApp il compito al figlio per l’esame di maturità è emblematico: buona parte dell’opinione pubblica, compreso qualche funzionario ministeriale, ha trovato comprensibile il gesto che è stato chiamato «debolezza», anzi c’è stato chi lo ha ritenuto un atto d’amore.

Ci vorrebbe un pizzico di coraggio e di buon senso. Basterebbe bocciare chi non merita la promozione e credere nelle capacità degli insegnanti esigenti e preparati. Basterebbe che i genitori smettessero di intromettersi nel lavoro scolastico dei propri figli: non c’è nulla di peggio di un padre o di una madre difensori d’ufficio della propria prole.

Una bocciatura contiene un elemento di generosità: significa permettere a un giovane di conoscere i propri limiti per poterli superare, e talvolta rappresenta l’unico modo per aiutarlo a scoprire ciò che vuol davvero fare.

Promuovere tutti è un’opera empia che rivela una grande sfiducia nel futuro. Significa voler fare del male ai nostri giovani: quando entreranno nella vita adulta e scopriranno che il merito è un valore oltre che una risorsa, e che nel mondo «reale», al di là delle Alpi, la bocciatura esiste, per loro sarà un’esperienza dolorosissima, aggravata dall’irreversibilità del percorso compiuto fino ad allora. Se non vogliamo questo, dobbiamo riconoscere che un professore severo ed esigente contribuisce a costruire una classe dirigente preparata e capace di sopravvivere in un mondo globalizzato e complesso.

Si fa un gran parlare dell’opera di don Milani. In realtà, pochi l’hanno letta e ancor meno sono quelli che l’hanno capita, altrimenti non dovremmo assistere a questa sciagura annunciata: non il coraggio, ma l’impotenza diventerà purtroppo la caratteristica distintiva di un sistema scolastico ormai boccheggiante.


                              Educare vuol dire togliere...
 

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