01 maggio 2022

INCONTRO CON PAOLO CREPET-I SUOI LIBRI: Oltre la tempesta 2021

 


Nel presentare questo libro di Paolo Crepet usciamo momentaneamente dagli argomenti che il noto psichiatra ci proporrà martedi prossimo a Sarzana (anche se è evidente che il problema pandemico potrebbe emergere comunque nell'ambito della serata) perchè oggi, 1° maggio, assistiamo ad una sorta di trait d'union tra la festa del lavoro, il giorno del riposo dallo stesso e l'inizio o la fine, dipende dai punti di vista, di una modalità di comportamenti antipandemici necessari per arginare un virus che ci ha ottenebrati, spaventati e resi diffidenti in ogni aspetto della nostra vita quotidiana e ci ha costretti a subire ingiurie fisiche e mentali particolarmente forti. E' su quest'ultimo aspetto che si concentra "Oltre la tempesta", il penultimo libro di Paolo Crepet, nel quale lo psichiatra ci invita a reagire, dal di dentro, contro la spossatezza psichica, le terribili negatività acquisite e la subdola malevolenza che è penetrata nella società. Occorre reagire, e Crepet sottolinea la necessità di un impegno collettivo, maturo e rigenerante. Nel ricordare, dunque, l'incontro di martedi prossimo a Sarzana con lo psichiatra, a seguire la prefazione del libro dalla pagina web di Paolo Crepet e il primo capitolo del testo.
 

 
Oltre la tempesta


Anno: 2021
Editore: Mondadori

Spaventati, disorientati, ora depressi o inclini all’ira, ora fiduciosi nella solidarietà collettiva, stiamo attraversando la pandemia come fossimo in mezzo a un mare tempestoso, cercando di resistere nella speranza di arrivare presto a un approdo. Ma come sarà quel porto? Migliore o peggiore di quello da cui siamo partiti? E come saremo noi, alla fine del viaggio? Sarebbe desolante se ad attenderci ci fosse la realtà di prima. Al tempo stesso, non possiamo pensare che il futuro si faccia da sé, per inerzia: il futuro è il tempo della fiducia, per questo va attivamente progettato e nutrito. Dobbiamo allora coltivare la fantasia, far leva sulla nostra forza immaginativa, per riparare ciò che si è incrinato dentro di noi e intorno a noi, nelle relazioni, nella vita quotidiana, negli spazi di lavoro. E lo dobbiamo fare soprattutto per le giovani generazioni, cui va restituito il diritto di sognare e di guardare avanti senza timore. Come spiega Paolo Crepet in queste pagine ricche di passione, occorrono curiosità e audacia: uno sguardo curioso ci permette di notare i dettagli, di scoprire che in ogni storia, per quanto minuscola, è contenuta una metafora; un atteggiamento audace ci aiuta a sfidare le correnti del conformismo e i freni di chi ha interesse a mantenere invariato lo status quo. La costruzione del futuro, però, passa anche attraverso un maturo impegno collettivo, perché da soli si può avere un’idea, un’intuizione, ma al Nuovo si arriva solo quando le persone si incontrano, si incoraggiano, si confrontano e si criticano, arricchendosi a vicenda. Quando il virus sarà sconfitto lascerà una cicatrice interiore che ci accompagnerà per molto tempo. Per questo dobbiamo reagire, fin da adesso. «Scuotiamo le nostre anime» facendo emergere la forza propulsiva e trasgressiva che è dentro di noi, per riscoprire il senso più vero e profondo delle relazioni e dare forma a quello che sarà il mondo oltre la tempesta. Solo così potremo dire che questa terribile esperienza ci ha insegnato qualcosa: se ci aiuterà a ritrovare la nostra dimensione più autentica, e a riscoprire la bellezza e lo stupore che la vita ha in serbo ogni giorno per noi.

 

Osservare il presente, immaginare il futuro

Nulla si sa, tutto si immagina.

FEDERICO FELLINI

Complice un inverno uggioso e testardo, guardo il mondo fuori come attraverso un oblò: forse sono, siamo, su una nave da cui partono scialuppe con eroi, disperati, irresponsabili, benefattori. Tutto sembra vicino eppure difficile da toccare, espressione di una strenua, residua volontà di resistere, di guadagnare l’altra riva sperando di essere in grado di attraversare quel guado; cerco di individuare il filo di un orizzonte ancora possibile.

È per questo che scrivo, per raggiungere l’altro argine, ma sappiamo che per farlo occorre prima immaginarcelo.

Mi chiedo, come tanti, dove vorrei approdare, quale gente troverò e soprattutto se la terra desiderata sarà migliore di quella che ho, che abbiamo, lasciato più di un anno fa.

In ciò che ci ostiniamo a chiamare speranza percepisco però anche una densità di rabbia, d’incomprensione, di fatalità, di manipolazione, d’ipocrisia: una parte è anche in me, perché nessuno può dirsi estraneo e migliore. Una bruma solida, pervicace da mesi, ci ha reso confusi, il tempo trascorso affatica lo sguardo, lo opacizza. Molti sono ancora disorientati dalla pervasività di un morbo invisibile (solo qualche giorno fa la stampa ha riportato che il virus è arrivato in Antartide, ultimo continente mancante nell’elenco dei contaminati), altri stanno forse cercando di imparare a «conviverci», come dicono in molti che si reputano saggi.

Ma non credo che le cose stiano proprio così.

Non si tratta di «resilienza» (parola fin troppo abusata tanto da aver perso in parte il suo valore originario), e ancor meno di un pensiero pateticamente «positivo» o di aggrapparsi a una teorica eventualità: troppo poco, troppo cortigiano.

La scienza sta svolgendo egregiamente il proprio compito – nessun vaccino è mai stato pensato, realizzato e inoculato in meno di un anno –, ma anche questo sforzo non può bastare. Le risposte non possono venire solo dagli scienziati e dai politici, ma anche da chi sarà disposto a fare, e non solo ora per ora; tutti dovremmo riuscire a scoprire e/o riscoprire una nuova forza propulsiva e dirompente, quella di un’immaginazione basata su un atteggiamento mentale che temo sia stato un po’ tralasciato, la trasgressione: un’immaginazione conservatrice è di per sé una contraddizione.

Occorre allora far riemergere qualcosa che scuota l’animo di chi naviga oltre la tempesta, oltre il timore dell’oggi.

Ricordo che anni fa una signora mi fece, forse involontariamente, il più bel complimento. Mi raccontò di essere venuta per la prima volta ad ascoltare una mia conferenza in un paesino non lontano da Bologna. Era arrivata in anticipo, per paura di non trovare posto nelle prime file, il teatro non era grande e temeva, rimanendo indietro, di non riuscire a sentire chiaramente le mie parole. Davanti all’ingresso ancora chiuso trovò una signora più anziana che aspettava già e la colpì vederla lì fuori nonostante la serata fredda, ma quella, sentendosi osservata, si voltò e a bruciapelo le chiese: «È mai stata a una sua conferenza?». La signora rispose di no scuotendo la testa con l’aria di chi sta riflettendo sul perché di quella improvvisa domanda, e l’altra, senza aspettare la risposta, incalzò: «Ma lei è pronta a farsi agitare l’anima?».

Credo che il compito di un intellettuale debba risiedere proprio nel creare e sostenere un subbuglio, un’inquietudine: che siano parole trovate tra le pagine di un romanzo o ascoltate da un palcoscenico non ha molta rilevanza, l’essenziale è che, chiuso il libro, abbassato il sipario, rimanga una sorpresa, un’agitazione, un fermento, un indefinibile scompiglio capace di scovare, inaspettatamente, qualcosa da troppo tempo sopito o scartato. Un frammento di disincanto che prende corpo senza farsi annunciare.

Sono persuaso che proprio in questo momento di questa vita così tribolata abbiamo il dovere di agitarci reciprocamente per uscire dalla bonaccia che, anche se molti non se ne sono accorti, la pandemia ha prodotto: effetto di un virus è immobilizzare attraverso la paura, impedire il pensiero legandolo al corpo, come capitò a Gulliver imprigionato dai lillipuziani. Già, perché il terrore e l’angoscia bloccano la fantasia al suo sorgere, impediscono provocazioni e non segnalano vie d’uscita.

Per uscire da queste sabbie mobili pandemiche, intese non solo come emergenza sanitaria, è necessario ripensare e progettare il mondo oltre questo flagello, occorre ritrovare una gioiosa, produttiva trasgressione. Non mi riferisco ad alcuna volontà iconoclasta che ha già mostrato, in questi drammatici frangenti, nefaste ricadute sull’azione sociale: al contrario, alludo a una sublime forza immaginativa capace di ricostruire ciò che è andato distrutto delle nostre relazioni e della nostra quotidianità, senza il bisogno di sostituirle ma prevedendone altre, inusitate e ribelli, forse perfino sovversive.

Non si tratta di vestire patetiche casacche da rivoltosi, ma di scovare una strada semplice e ovvia: se immaginare necessita forza, rimanere attoniti non richiede null’altro che passività e accondiscendenza. Il rischio è che sia proprio l’ignavia a fiaccarci per molto tempo oltre quello salvato dal vaccino.

Sto appuntando i miei pensieri nel pieno di una nuova ondata pandemica che molti scienziati ritengono sia preludio di ulteriori e maggiori contagi, malattie, vittime, ma questo è anche il tempo in cui sono nati farmaci innovativi ed è iniziata una campagna di vaccinazione di massa: alcuni Paesi stanno somministrando la dose di richiamo, dunque ci sono persone che già in questo momento possono dirsi salve, e il fatto che non siano emersi problemi o effetti avversi è di per sé molto rincuorante. Abbiamo dunque ragioni per credere che, se prevarrà il buon senso e se la stragrande maggioranza dei cittadini del mondo sarà disposta a farsi vaccinare (e i Paesi ricchi aiuteranno quelli in difficoltà completando l’opera), questa immane tragedia conoscerà la sua fine biologica entro un tempo ragionevole.

Eppure credo che, anche quando sarà annientato il virus, qualcosa di misterioso rimarrà ancora tra gli umani: un residuo, una cicatrice come quelle che restavano dopo aver fatto l’antivaiolosa da bambini. Una traccia che non sarà visibile come un piccolo sfregio sulla pelle, ma qualcosa che occuperà, per un po’ di tempo, un angolo del nostro spirito, perpetuando la sensazione di un terrore non del tutto scomparso, né compreso.

Ho scelto di scrivere questo libro proprio per cercare quel vulnus interiore che non necessariamente significherà aggravio, ma potrà essere perfino potenzialmente fruttifero.

Mi sono imposto il compito di prefigurarmi il dopo pandemia, non per evitare di occuparmi dei rischi quotidiani e delle loro esigenze, né per sottrarmi dal fare i conti con lutti e perdite, con responsabilità e scelte, ma per tentare un’operazione diversa: dipingere una visione che possa andare oltre i danni biologici, percepire un orizzonte possibilmente inconsueto, eppure tangibile dalla nostra volontà. Ovvero, la sfida più importante e strategica che abbiamo davanti a noi, ma anche un’opportunità non replicabile.

È evidente che per farlo occorre comunque tenere presente il punto di partenza: le radici del dolore. Non auspico un salto nel buio. Ogni parola non può che contenere un atto di umiltà, manifestare le nostre scuse per non essere stati abbastanza responsabili nei confronti di chi è stato ucciso da quel virus.

Non è mio compito fare un bilancio: sarebbe presuntuoso e poi comunque si riassumerebbe nel numero crescente dei morti che questa pandemia sta causando; una cifra che non va aggiornata e archiviata in fretta e furia, per passare oltre paure, perdite, lutti e illuderci che tutto sia diventato improvvisamente e immeritatamente storia. Quella cifra non rappresenta la fine, ma l’inizio di un futuro possibile che occorre scrivere insieme.

Questo è l’unico augurio che le persone che ci hanno lasciato a causa dell’epidemia vorrebbero formulare per noi. Se potessero ci direbbero: «Guardate avanti, oltre noi, oltre la nostra fine, fatelo perché ciò non abbia mai a ripetersi, salvate almeno i prossimi».

Questo libro non intende redigere un resoconto, ne abbiamo letti anche troppi in questi mesi: tutti i pomeriggi alle diciotto, puntuali, le testate giornalistiche hanno riportato numeri scarni e impietosi, gli elenchi dolorosi di ciò che è diventato il quotidiano con cui fare i conti, i vespri neri, le campane suonate a morto per i vivi, compresi quelli che negano, quelli che si rifiutano di credere in ciò che è accaduto e continua ad accadere in un reparto di ospedale o sul letto in una stanza delle nostre case.

Non sono e non voglio essere un ragioniere di lutti, ma cercare di capire a cosa appigliarsi per progettare il nuovo, da quale altura si possono scrutare inediti orizzonti che l’umanità immagina, vite indomite che aspettano di sbocciare. Il domani è parzialmente scritto nel presente, accettato o rifiutato, ma il domani non è futuro vero, ne è solo l’assaggio.

«Abbiamo disimparato a coniugare verbi al futuro» mi disse tanti anni fa una signora con i capelli lisci, ordinati e raccolti in uno chignon candido. Era stata una professoressa di italiano in un liceo della città che mi ospitava. Parole impeccabili allora e tanto più oggi. Questo è il momento per seguire l’implicito consiglio dell’anziana insegnante, ma se dovessimo ammettere la verità, ovvero che gran parte dei verbi vengono ancora coniugati al presente, dovremmo chiederci perché. È il presente che ci affascina o il futuro che ci terrorizza?

Oppure ciò che il benessere ha permesso, solo fino a un anno fa, ci è bastato così tanto da far prevalere l’egoismo e renderci anche molto presuntuosi? L’accumulazione di oggetti ha stordito e assuefatto il cittadino tanto da condurlo all’inganno mortale: la supponenza che porta a non aver più bisogno degli altri e nemmeno di un domani.

Poi, però, accade l’imprevisto: il mito del presente scricchiola sotto i piedi e conduce al terrore proprio perché coglie impreparati.

C’è un coraggio che occorre trovare sotto le ceneri, quello che fa scovare il futuro anche fra le tenebre.

È da ciò che la pandemia ha prodotto, ben oltre la patologia che ha colpito i corpi, che vorrei partire...

 

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