24 settembre 2023

CINEMA: Non ve lo meritate Nanni Moretti

 


Ieri ho finalmente visto il nuovo film di Nanni Moretti, "Il sol dell'avvenire". Un film di una grandezza e di una lungimiranza notevoli. Da sempre sono un estimatore della cinematografia morettiana e dunque la mia visione è avvenuta dopo aver letto, in questi mesi dall'uscita a Cannes del film, qualche recensione on line (la Rete è letteralmente costellata di numerosissime e saccenti schede, presentazioni, scritte da giornalisti ed esperti di vario tipo ed età, dove si sprecavano giudizi negativi, stroncature ma anche qualche interessante osservazione).


Comunque, quello che emergeva era la constatazione che un gran numero di recensori non conosceva fino in fondo la poetica cinematografica di Moretti, rimanendo di fatto sulla superficie del film ma soprattutto nell'incapacità, tra i più giovani, di comprendere fino in fondo le uscite visive e affabulatorie del regista . Le emozioni che Il Sol dell'Avvenire provoca sono intense e commoventi in molti punti ed è difficile cogliere i cambiamenti di quei profondi frammenti di pensiero morettiani che da sempre caratterizzano il regista romano, visto la trasfigurazione che emerge dall'inarrestabile tempo che passa. Molti si aspettano le solite gags o i pensieri di Michele Apicella aggiornati al nuovo millennio ma le cose sono molto più complesse e non a caso per parlarne occorre fare prima di tutto una premessa( letta ieri sera, proprio dopo la visione del film) che Paolo di Paolo in Camera Obscura ci presenta prima di rivolgere, a noi lettori del suo articolo (millenial e boomers, leggerete perchè), tutta una serie di domande sul film per evidenziarne la percezione. Questo inquadramento è necessario per l'approccio alla pellicola. Segue poi una vera recensione che entra con accortezza nel labirintico mondo di Giovanni, articolo che sottolinea la necessità di conoscere il regista e le sue opere precedenti per godere appieno di una visione completa. In tal senso vorrei riportare anche questo anedotto e le frasi successive tratte da un'altra recensione del film ad opera di Luca Pacilio sempre sul sito degli Spietati:

 " Una volta ho chiesto a Pupi Avati della giuria di Cannes di cui faceva parte e che assegnò la palma d’oro a Pulp Fiction e se fosse vera la leggenda che narra che alla riunione che seguì la proiezione del film di Tarantino, Clint Eastwood, che era presidente, avesse esordito dicendo: «Ieri abbiamo visto la palma d’oro», chiudendo ogni discorso sul massimo premio da assegnare. Avati ha smentito recisamente, parlando al contrario di unanimità sul film, aggiungendo però che fu dura far accettare all’americano l’idea di un premio a Caro diario di Moretti. Perché a Eastwood non solo Caro diario non era piaciuto neanche un po’, ma gli era parso il film di un dilettante. E che si dovette arrivare con critiche e giornali alla mano per convincere Clint che il film aveva avuto un generale plauso, per poi assegnargli il premio alla regia. Dilettantesco, questa è la percezione che si può avere non solo del cinema di Moretti, ma anche di uno dei suoi titoli più indiscutibili. E non è il giudizio di uno spettatore qualsiasi, ma di un uomo di cinema non qualsiasi. Questo fa comprendere quanto l’avventurarsi in un film morettiano presupponga, per una sua lettura, la conoscenza dell’autore, le sue caratteristiche. Chi è. Cosa ha fatto. Così l’iniziato non può non rendersi conto che Il sol dell’avvenire segna l'atterrare di Moretti al centro dell’opera, di nuovo nel ruolo del regista del film di cui il film parla: è un ritorno a casa, rassicurante, anche comodo. Come il racconto della sinistra di oggi guardando allo ieri. Come il farlo attraverso l’autobiografia, attraverso la crisi di coppia, come la nascita del figlio (Aprile) o la perdita della madre (Mia madre), eventi personalissimi attraverso i quali filtrare lo Zeitgeist e restituire la propria idea di impegno. Perché tornando al chi-è-cosa-ha-fatto, è chiaro dalla sua opera che il modo del romano di intendere l’impegno politico passa per una riflessione che pone al suo centro l’intimità della persona, forse perché nella fragilità e nelle umoralità del personale emergono le sfumature, quelle che mancano agli slogan o alle posticce certezze della politica praticata oggi.."




Non ve lo meritate Nanni Moretti

di Paolo di Paolo da Limina Rivista

Ne ho fatto, oggettivamente, quasi un’ossessione. Una piccola ossessione. Dalla prima visione di Il sol dell’avvenire sono uscito stordito e commosso, e mi sono domandato subito: e chi non è “novecentesco” come lo vedrà? Avrei, se non fosse stato complicato, chiamato a raccolta un drappello di ventenni perché vedessero il film e mi offrissero la loro recensione a voce e a caldo.
Così, nei giorni successivi all’uscita in sala, ho cercato di leggere il più possibile: commenti casuali, pezzi su blog di cinema più o meno qualificati, recensioni di diversa provenienza e natura. Non mi aspettavo questo profluvio: raro, oggettivamente, che un film – negli anni Venti del secolo in corso – scateni un autentico dibattito. Con l’ultimo Moretti è accaduto, e un’ansia di posizionamento da social ha caricato la discussione.

Dove si moltiplicano le opinioni, è naturale e inevitabile che si mescolino acume e sciatteria, approssimazione e competenza, reale partecipazione intellettuale e presunzione esibizionistica. Certo, un conto è carpire, con la coda dell’orecchio, i commenti degli spettatori all’uscita del cinema – considerazioni spesso masticate male, malissimo, fastidiose per superficialità, per come si confondono spesso con le preoccupazioni pratiche (dove abbiamo messo la macchina? Dove mangiamo stasera?). È terribile, ma è umano.
Nero su bianco, come si diceva una volta, fa tutto un altro effetto. E d’altra parte solo da un quindicennio esiste questa sovraffollata tribuna web. Mi dico, come se il film fosse mio: lascia stare, non leggere, disintossicati. Penso alla scena del Sol dell’avvenire in cui il personaggio interpretato da Nanni Moretti si accosta a un ragazzetto, che ha appena finito di vedere La Dolce vita e già fa le pulci al film, e gli dice all’orecchio: «Piantala di dire scemenze!». Penso che non posso permettermelo, non posso fare il moralizzatore dei commenti e che però sì, in un sogno quasi cinematografico, farei in modo che partisse un fastidioso allarme a ogni considerazione fuori asse: «Piantatela di dire scemenze!».

Non è democratico, va bene. Lasciamo che chiunque pronunci le sue scemenze – tanto le dimentica appena dopo averle pronunciate. Come stille di saliva, nuvole di fumo sbuffate, tossine espettorate. Amen. Resta il film, non i commenti. E tuttavia non riesco a rassegnarmi totalmente all’idea che – almeno chi scrive sotto una testata, di carta o digitale-aerea che sia – debba provare a fare di meglio, a non inquinare ulteriormente un’aria già così inquinata. Se la scuola ci ha saggiamente allenato al riassunto-commento, perché non mettiamo in pratica da adulti qualche aurea regoletta? Perché non connettiamo meglio ciò che abbiamo compreso (se abbiamo compreso) all’opinione che ce ne siamo fatti?
Una questione di igiene pubblica. Esagero? Forse. E però mi pare che il Lettore professionale di oggetti culturali, il Recensore, o chiunque si voglia tale, dovrebbe assumersi la responsabilità di non essere l’alter ego del commentatore istintivo e occasionale. Non è una questione di elitarismo, ma di strumenti: se li si possiede, non c’è nemmeno bisogno di esibirli. Così, se resta indiscutibilmente vero che «anche l’opera più mediocre ha più anima del nostro giudizio che la definisce tale» (il critico Anton Ego in Ratatouille, Disney Pixar), il punto è anche cercare di cogliere e interrogare l’anima. Prima di arrivare alla sentenza.

In questo senso, di una qualità talvolta solo deludente e talvolta imbarazzante mi sono sembrate le recensioni a Il sol dell’avvenire ospitate anche da riviste di qualche autorevolezza (Rivista Studio, Esquire, Le parole e le cose, ecc.). E sintomatiche dei tempi in cui ci si veste da influencer anche quando si è sconosciuti: «Nanni Moretti non ha più niente da dire» sentenziava uno dei titoli più lunari, in cima al pezzo in cui un trentenne bofonchiava la sua verità stizzosa. Così come l’autore di un pezzo intitolato “Ritratto di Nanni Moretti da vecchio” ci raccontava che Moretti lo annoia come lo annoiano i discorsi di suo padre. Una roba così.
Ti prego, portami da qualche parte che non sia casa tua, portami dove si possa capire qualcosa – avrei voluto dire all’autore del pezzo – offrimi una lente, una prospettiva, un barlume di emozione, un guizzo di intelligenza. Vuoi stroncare, approdare a un giudizio negativo? Bene, è lecito, ma non farmi sentire tra le righe la tua inerzia intellettuale, la tua noia, l’acidità di stomaco. Ti prego! I trenta-quarantenni “professionisti” non hanno brillato, alla prova del nuovo Moretti. E i loro padri nemmeno: risentiti, infastiditi forse dalla loro stessa senilità: sono gli stessi che all’anteprima di un film di Pupi Avati si profondevano in commenti penosi sulla Edwige Fenech che fu. Catarrosi, patetici. Aridi. Mi stavo vergognando per loro.

È che letteralmente sprofondo nella tristezza quando mi accorgo che chi lavora con gli oggetti culturali diventa stronzo. Ma santo dio, dovresti divertirti, è un lusso, è un privilegio, restare appassionato, provare di continuo a tenere desta la parte migliore di te, e invece scrivi roba sciatta, anemica, risentita? Dove il millennial (parlo come parte della categoria) gioca di presunzione, il padre boomer gioca di disincanto e noia. Ma trattasi di noia esistenziale, più che di noia derivata dalla visione del film. È un gran pasticcio. Tanto più quando l’oggetto culturale è complesso, stratificato, iperconsapevole come il film di Moretti. Tanto più quando propone comunque un’idea di opera alternativa al pur legittimo e nudo-e-crudo intrattenimento. Tanto più quando un’articolazione stilistica simile – arrivando a centinaia di migliaia di spettatori – fa sentire meno solo l’azzardo “sperimentale” del regista giovane, la sua scommessa sulla personalità, sulla singolarità, e forse fa sentire meno solo anche uno scrittore che non pensi al romanzo solo come a una storia fatta di turning point. Non mi riferisco alla famigerata scena in cui il regista Giovanni è al tavolo con i capi di Netflix. No, mi riferisco proprio alla libertà compositiva che il film emana: quella che l’acutissimo recensore di turno ha definito, per dire, effetto patchwork come se fosse qualcosa che ti esplode fra le mani, di non voluto, quando è per l’appunto un modo di raccontare. La tristezza e un filo di rabbia mi vengono per come – nella piena legittimità delle opinioni sfavorevoli – non ci si impegna a difendere in assoluto, al di là di uno specifico risultato, un certo modo di fare cinema. Un certo modo di fare letteratura. Un’alternativa. Non so più chi assimilava la necessità di proposte diverse nei campi espressivi all’opportunità che, in una dieta sana, non ci si nutra solo di pur appaganti Big Mac Menu.
Invece te ne stai lì a ghignare, a lamentarti, a sbuffare – segno di un’epoca di insofferenza a tutto, sempre plateale e carica di nervosismo (pensate a tutti – TUTTI – gli ambienti di lavoro, al clima che si respira). Te ne stai lì a perdere tempo, a dire – ai tempi di Tre piani – che rivolevi Moretti che faceva Moretti, e ora – davanti al Sol dell’avvenire – ti lagni che fa “troppo” Moretti. Ma piantala e riaccendi il cuore, che è in blocco. Piantala, e raccontaci anche solo dell’unica scena che ti ha fatto generare un pensiero buono, fresco, vitale, che ti ha disarmato, che ti ha fatto ridere, capire. Che ti ha fatto sentire vivo, più vivo per due minuti di come tornerai a essere quando ti rimetti davanti al computer.

E ora non posso cavarmela, dopo la lunga tirata, senza provare a produrre un eccentrico questionario sul Sol dell’avvenire a uso retroattivo del recensore boomer o millennial inacidito. Mi auguro non abbia lo stesso effetto di quell’orrida recensione che Moretti, in un suo film, leggeva per torturare il critico che l’aveva prodotta:

Hai fatto caso al momento in cui Ennio, dirigente del Partito comunista italiano (Silvio Orlando), attende ansioso, preoccupato, che si accendano le luci nel quartiere Quarticciolo, segno dell’arrivo della luce elettrica? Prova a sostare in quell’attesa, a leggerla, a comprenderla.

Hai fatto caso al momento in cui Ennio interroga i nuovi iscritti al Partito? Alla sua faccia, alle loro facce? Le parole vengono da questionari veri pubblicati su “Vie Nuove”. Non è strano che non ti si spezzi un po’ il cuore?

Hai fatto caso al modo in cui Ennio, quasi correndo, raggiunge lo spiazzo in cui è installato il circo ungherese Budavari, i cui artisti hanno deciso di incrociare le braccia per protesta contro l’invasione sovietica dell’Ungheria? Non si smuove nulla in te? È un vero peccato.

Hai fatto caso al momento in cui il regista Giovanni, sognando di fare un film pieno di canzoni su una storia d’amore lunga mezzo secolo, dà le battute a una ragazza (Blu Yoshimi) che discute col suo fidanzato? Potrebbero metterti in discussione più di quanto tu sia disposto a credere. Ti va di provare a non essere quello che dice scemenze su La dolce vita?

Hai fatto caso alla scena in cui il regista Giovanni, quasi arreso ai problemi del film che sta girando, palleggia solitario al tramonto nei pressi delle scenografie? Mi pare che possa bastare pensare a quella per tacere a lungo e fare i conti con la propria intera vita. Con il senso delle cose che proviamo a fare, con il senso di ciò che proviamo a essere.
In subordine, non ti pare che dica anche quanto si è soli pur stando fra gli altri?

Hai fatto caso a tutto ciò che non è la tirata sui sabot, il gelato, la lunga scena-lezione sulla violenza al cinema, la scena su Netflix? Hai dato qualche possibilità ai dettagli? Alzate di sopracciglia, silenzi, sorrisi?

Ti è venuto in mente che la sfilata finale, anziché derubricarla come felliniana, nostalgica, testamentaria, auto-celebrativa o boh, sia anche un modo di dire una parola impegnativa e necessaria come “grazie”?
Non dico che sia questo, ma magari è un’alternativa alla prima cosa che ti è venuta in mente.


Il Sol dell'Avvenire- Rececensione intonata

      di Alessandro Ronchi da Gli Spietati

Coppie di anziani che ballano
al ritmo di sette ottavi

Franco Battiato

Il corpo cristologico che riassume in forma individuale fallimenti e smarrimenti generazionali in Bianca La messa è finita, il corpo malato-guarito di Caro Diario, la presa in carico dell'incarnazione dell'avversario politico-antropologico ultimo ne Il caimano, la presenza laterale come proiezione fantasmatica ideale complementare agli autoritratti in terza persona nel dittico dell'inadeguatezza Habemus Papam Mia madre. Seguendo la chiave interpretativa della radicalità del cinema di Nanni Moretti come cinema del corpo catalizzatore, del martirologio per cui la presenza esorbitante in scena dell'attore-regista serve a veicolare temi essenziali e drammatici personali e collettivi è naturale considerare Il sol dell'avvenire come un capitolo ulteriore, quello relativo all'età senile. Todo cambia e Nanni non ha reticenze nell'esporre una volta ancora il proprio corpo e mostrarsi invecchiato nell'aspetto, nelle movenze, nell'inflessione della voce, nelle pause. È l'occasione per un ennesima reinvenzione del proprio alter ego. L'apodittico Michele Apicella si trasforma in un Giovanni che si spiega, che spiega. Moretti ha sempre parlato di cinema nei suoi film ma mai era stato così apertamente e ampiamente saggistico e digressivo fermandosi per ragionare citando per nome e autore: Lola di Jaques Demy all'inizio e The Blues Brothers per il cinema come sogno/evasione/danza che ha sempre rappresentato metà del cielo delle aspirazioni morettiane, San Michele aveva un gallo dei Taviani e soprattutto Breve film sull'uccidere di Krzysztof Kieślowski come esempio di deontologia dell'immagine in una lunga scena strutturata come una vera e propria trattazione argomentativa su tema con contributi esterni di Renzo Piano, Chiara Valerio e Corrado Augias.

È anche un Moretti che accetta di trasformare in meme il proprio personaggio iconico, di fare fan service (i sabot, Battiato sono tutti tra parentesi e virgolette, si capisce dopo il senso della prima parte ingolfata di autocitazioni) mettendosi in dialettica ironica. Quando afferma e si corregge "Io non penso al pubblico quando faccio un film. Cioè mi piace dire che non penso al pubblico quando faccio un film ma non so se sia vero" si tratta del più radicale e inatteso di tanti momenti disarmati e disarmanti di un film tenero, agrodolce, in bilico tra crepuscolo e sole (dell'avvenire). Subito dopo questo lasciarsi andare sfuma in un'altra scena fondamentale per inquadrare il movimento esistenziale che ha generato Il sol dell'avvenire: una cena all'ambasciata polacca dove tutti dicono la loro sul film in lavorazione. L'ossessione del controllo, della sintesi per voce sola chiara, unitaria e controllata ("con tutta la stima per Cassavetes noi siamo all'estremo opposto") cede alla gioia della cacofonia. Dall'io al noi, dall'uno ("Io sono l'unico" diceva Apicella) alla moltitudine. La spiaggia, il bar, la balera estiva da sempre vagheggiata, avvicinata senza riuscire mai a confondersi veramente, restando corpo estraneo, forse è stata raggiunta, come la luce verde di Gatsby. Poter sparire tra la gente, non essere per un momento minoranza, un sentimento oceanico. Nell'ultimo di tanti finali, il più felliniano - Il sol dell'avvenire è anche l'omaggio più esplicito possibile a tutti i maestri che Moretti ha riconosciuto - c'è una parata ai Fori Imperiali dove partecipano meritando un'inquadratura in stile socialista eroico, alla Pellizza da Volpedo, tutti gli altri corpi ritornanti del cinema morettiano, gli attori che lo hanno seguito nei decenni. Chiude Nanni in persona e saluta, la camicia sbottonata e il sorriso aperto. È stato scritto che si tratta di Fellini socialista, sicuramente è una scelta di campo definitiva contro la realtà rugosa. E sicuramente chi è cresciuto con i film di Moretti e i suoi volti non può non commuoversi pensando alla fine e all'inizio cui allude.

L'alter ego altro Silvio Orlando sogna da sempre di girare un film in cui il protagonista, alla fine, si uccide. Date le premesse sarebbe l'esito inevitabile, l'ultimo stadio rimasto per il corpo-cinema di Moretti, che aveva già provato per la prima volta a morire, sparire anzitempo dal film in Tre piani. E invece no. Nanni ha imparato da qualche decennio (dopo i quarant'anni e la malattia: parlando di Moretti il dato strettamente biografico non è mai gratuito) che è sano gettare via i ritagli di giornale che fanno arrabbiare, poi a partire da Habemus Papam (uno dei suoi film più estremi, non riconosciuto per il capolavoro che è) il periodo dell'impasse, della crisi, della disgregazione, del lutto, dell'afasia bartlebyana. È quindi una leggerezza conquistata a fatica che passa attraverso confessioni senza interposta persona come la dipendenza dagli antidepressivi e le invocazioni alla mamma perduta e tanta inedita (auto)indulgenza. Per Moretti come per Pasolini, altro esempio e riferimento costante, le opere d'arte più belle sono quelle solo sognate. Il messaggio veicolato dal corpo nuovo morettiano è un articolato paesaggio esistenziale che si delinea attraverso gli altri film, quelli non finiti, abbozzati o soltanto immaginati e vagheggiati: il Moretti senile afferma che le possibilità del corpo scemano per inevitabile entropia ma le possibilità dell'immaginazione sono inattaccabili ed è lo slancio vitalistico a far sorgere Il sol dell'avvenire. Il cinema come spazio possibile, il "film di canzoni" da lasciare aperto, da non completare mai dove convivono Fellini e Tenco e soprattutto dove Moretti anziano può intervenire per dire al se stesso adolescente di smettere di pontificare e baciare la ragazza di cui è innamorato. Demy conta quanto i fratelli Taviani, sono entrambi ugualmente necessari. L'ultima età è fatta per rimpiangere quando inevitabile ("il film sul nuotatore di Cheever avrei dovuto farlo quando ero giovane e in forma") ma anche per accettare e correggere. Si può continuare per sempre a parteggiare per l'utopia, riscrivere a piacere, con i se, la storia - maiuscola e minuscola, il personale e il politico, il personale è politico - strappare le effigi del dittatore Stalin e celebrare Rosa Luxemburg, immaginare al cinema-nastro di sogni un'ucronia nella quale il PCI rinnega l'Unione Sovietica dopo la repressione ungherese e lasciare nella memoria e negli occhi umidi un cartello rosso luminoso come un sole dell'avvenire da teatro di posa, come un happy end da musical, che racconta come tutto è andato bene nel migliore dei mondi possibili riscattato "dall’utopia comunista di Karl Marx e Friedrich Engels che ancora oggi ci rende tanto felici".


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