A un certo punto del libro riporti una tua conversazione con Cesare Pontalti, psichiatra, psicopatologo e gruppoanalista, uno dei maestri della psichiatria fenomenologica italiana, in cui viene detto che la scomparsa dei compiti esecutivi porta con sé un sentimento di incompetenza, minori risorse di autonomia e di autogestione, e un ulteriore smarrimento. Trovo sia un punto fondamentale, potresti spiegarmi meglio?
Parlavo prima della necessità della segretezza, e questa ha a che fare proprio con la necessità di autonomia. Ciò di cui oggi gli adolescenti hanno più bisogno è proprio l’autonomia. Nella famiglia affettiva odierna, il progetto principale è la costruzione della “felicità” del figlio, ovvero la sua realizzazione sociale e il suo successo, e a questo progetto vengono messe a disposizione tutte le risorse. Il figlio concentra su di sé aspettative, diventa oggetto di proiezioni narcisistiche del genitore, ed esiste come specchio di quelle attese. Di fatto non esiste come sé autonomo.
Pontalti mette in rilievo come vi sia una forte discontinuità, oggi, tra la famiglia e il mondo “là fuori”. I figli oggi sono sempre meno investiti di quelli che lui chiama “compiti esecutivi”, perché nella famiglia affettiva “si è sempre troppo piccoli”, e la famiglia si preoccupa di proteggere il piccolo, sostiuendosi a lui nei compiti esecutivi che un tempo gli erano affidati. La scomparsa dei compiti esecutivi porta con sé un sentimento di incompetenza, minor risorse di autonomia e di autogestione, cosicché l’adolescente si trova esposto al mondo, in una terra di nessuno, senza punti di riferimento, senza una capacità di significazione adeguata. Ne consegue che si fa sempre più fatica a separarsi dalla famiglia. O meglio, è la famiglia a non separarsi dall’adolescente, che è invado dai discorsi genitoriali, dal loro immaginario, dalle aspettative a cui deve rispondere. L’educazione avrebbe questo compito prioritario: favorire un processo di separazione e individuazione del Sé, favorire le condizioni per la creazione di uno spazio di autonomia.
Scrivi che viviamo in una società in cui il mito della ricchezza domina l’immaginario e la “società dello spettacolo” promette visibilità e status sociale a chiunque. In questo contesto, gli adolescenti coltivano spesso l’illusione del denaro facile. Quali sono le conseguenze, sul piano pedagogico, di questo fenomeno?
In una società come questa, fondata sul mito del successo, è inevitabile che siano molti gli adolescenti presi negli incantamenti e nelle seduzioni spettacolari e performative della società degli individui. Per l’adolescente, allora, che in quanto tale si trova a confrontarsi col suo vuoto da colmare – con quell’enigma cui rispondere che precipita nella domanda chi sono io? -, sarà una facile scorciatoia provare a colmarlo con il consumo maniacale delle merci, ciò che permette di fare a meno della relazione con l’altro, così faticosa e rischiosa. Comodo, e quasi naturale, sarà pensare che la mia identità, così evanescente e dipendente dal giudizio altrui, possa trovare consistenza nelle cose. E dunque nel denaro, che è “l’equivalente generale delle merci”, oggetto fra gli oggetti che condensa ogni desiderabilità. In questo senso Pietropolli Charmet dice che I soldi sono un modo di combattere la solitudine, perché dimostrano che ce l’hai fatta, che sei un vincente, e dunque sei desiderabile.
A fronte di questo, l’educazione ha il compito ancora pù decisivo di intensificare la passione, stimolando a confrontarsi davvero con il proprio vuoto, con la domanda ineludibile di soggettivazione. E una scuola burocratico-performativa come quella che abbiamo, in cui prioritari sono le competenze, la valutazione, l’orientamento, non è adeguata allo scopo.
Nel trattare l’influenza della realtà virtuale sulla vita degli adolescenti poni questioni puntuali riguardo allo sguardo e all’esperienza, evitando condanne moralistiche. Ti chiedi, infatti, quale senso abbia isolare i social dal sociale. Anch’io condivido questo punto di vista: la scuola contemporanea investe molto nella formazione digitale, ma nello stesso tempo addita i cellulari come “responsabili” di pericolose derive. Potresti chiarire meglio queste contraddizioni?
C’è una tecnofobia che fa molta presa sugli adulti: addossare le colpe ai device è un comodissimo alibi, perché consente di trovare il responsabile della distanza, della solitudine e delle difficoltà degli adolescenti, senza mettere in discussione nulla del proprio mondo – sociale, economico, politico educativo, etico. Ai giovani gli adulti lasciano un mondo al collasso, ma non sentono per questo di avere alcuna responsabilità. Non a caso un libro come La generazione ansiosa di Jonathan Haidt ha avuto un successo straordinario negli Stati Uniti: stabilisce un legame causativo tra uso di Internet e aumento di ansia, depressione, autolesionismo e suicidi, tralasciando quei fatti evidnetemente irrilevanti che sono il “no future”, il rischio di estinzione globale nell’era dell’antropocene, le guerre globali, l’incertezza e la crisi economica, il precariato diffuso, e tutte le questioni di cui abbiamo parlato fino ad ora. Macché, tutto questo non conta, è colpa degli smartphone.
Ecco, non credo vi sia esempio migliore dell’incapacità degli adulti di relazionarsi ai giovani e di poterli comprendere.
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