26 novembre 2025

GLI EVENTI DI INSARZANA: Non siamo capolavori. Il disagio e il dissenso degli adolescenti. In dialogo con Marco Rovelli

 

Martedì 2 dicembre alle 17.30 presso la Sala Multimediale del Vecchio Ospedale cittadino (Via Paci 1 a Sarzana) MARCO ROVELLI presenterà il suo ultimo libro "NON SIAMO CAPOLAVORI il Disagio e il Dissenso degli Adolescenti". (Ed. Laterza). Sara' presente l'autore e dialogheranno con lui la Prof.ssa. Manuela Schiasselloni e il Musicista Andrea Giannoni. In attesa dell'evento presentiamo questa intervista a Marco Rovelli per meglio inquadrare l'autore e i temi del libro.





Non siamo capolavori. Il disagio e il dissenso degli adolescenti. In dialogo con Marco Rovelli

a cura di Ivana Margarese da vocidall'isola.it


A scuola insegnanti e operatori terapeutici si misurano quotidianamente con un disagio adolescenziale diffuso e in continua espansione. Questo malessere prende le forme più diverse: ansia, attacchi di panico, disturbi del comportamento alimentare, ritiro sociale, autolesionismo, personalità borderline, abuso di sostanze. Un segnale che non si può  ignorare o considerare limitato a casi isolati. Non siamo capolavori. Il disagio e il dissenso degli adolescenti di Marco Rovelli nasce da questa consapevolezza e con lucidità e precisione introduce in una questione troppo spesso ridotta a facili slogan e retoriche.

Da docente che si confronta ogni giorno con una realtà difficile, spesso sorda a qualsiasi istanza di autentico rinnovamento, in cui il conservatorismo, la burocrazia, la mancanza di coraggio e di visione unitaria sembrano seppellire ogni orizzonte ho trovato questo libro una guida preziosa e ho chiesto a Marco Rovelli di dialogare con me per Morel.

In esergo a questo libro hai posto una delle frasi più celebri di Beckett: «Ho sempre provato, ho sempre fallito. Non importa. Proverò ancora. Fallirò ancora. Fallirò meglio».
Queste parole introducono uno dei temi centrali del tuo saggio: il fallimento. Qual è, a tuo avviso, il peso della paura e del senso di fallimento — troppo spesso sottovalutati dagli adulti — nella formazione degli adolescenti? E quali conseguenze etiche, politiche e individuali porta con sé questo malessere, legato a bisogni spesso inascoltati?

Il fallimento è l’incubo delle generazioni cresciuta nella società performativa degli individui. Una società che mette l’Io al centro, dove ogni Io è chiamato incessantemente a essere all’altezza di standard, giudizi, immagini, di ingiunzioni prestazionali che ti si impongono in ogni ambito della vita: in famiglia, nei media, nei social, nella scuola, e ovviamente nel lavoro che ti aspetta. Questo è l’esito di quella grande trasformazione antropologica neoliberale che ha preso corpo dalla fine degli anni settanta, e che ha posto l’individuo al centro dell’immaginario etico, un individuo chiamato a essere imprenditore di se stesso. Si tratta di produrre se stessi, tutto ti chiama a farlo. Ed è una pressione che risulta intollerabile. La fragilità dei giovani, e il disagio sempre più diffuso, è legato a questo fattore. Si vive nel terrore dell’errore che dimostra che non sei all’altezza, che non sei capace, che non sei. E così il fallimento – che nell’enunciato di Beckett era proprio quella necessità dell’umano, perché l’uomo vive nel e del suo proprio fallimento, ed è fallendo che procede – diventa un evento intollerabile, che ti schiaccia.
Oggi si vive in un regime di visibilità, in cui essere significa essere visti – è quello che ho chiamato Io vetrificato: trasparente come il vetro, esposto allo Sguardo e al suo Giudizio, all’immagine riflessa su di lui; e come il vetro fragile, esposto alla possibilità della disintegrazione. Se non capiamo questo, non capiamo nulla dei giovani. E purtroppo gli adulti troppo spesso non lo capiscono, e giudicano.

Ho trovato molta verità nelle parole di Andrea Fogli, rappresentante del liceo Berchet: «Spesso il benessere psicologico viene sminuito dagli stessi professori; viene preso come unesagerazione da parte nostra. Secondo loro esageriamo, perché dicono che nella scuola di un tempo era normale affrontare un carico di studio pesante. Ma per i nostri bisogni questa scuola non è più adeguata. Non c’è stata unevoluzione del sistema scolastico».
Vorrei chiederti una riflessione su questo passaggio e, in particolare, sul ruolo della cura come dimensione formativa.

Tra gli adulti che non capiscono purtroppo ci sono anche molti insegnanti. Anche per loro i giovani sono alieni. E con gli alieni, con chi si pone a una distanza abissale da noi e noi non riusciamo a comprenderlo, non ci può essere relazione: possono essere solo oggetto di un giudizio. La cura parte quando capisci che prima di tutto si tratta di capire in che mondo vive chi ti sta davanti, qual è la su “situazione” nel mondo, quali i suoi valori, quale le sue attese, quali le su fragilità. Se si comporta in un certo mondo, a me educatore non toccherà capire prima di tutto quale senso quell’adolescente attribuisce a quel comportamento? Se non capisco prima di tutto questo, lo giudico a partire dal mio mondo, e allora gli adolescenti non saranno che una massa di inetti da raddrizzare. Da “educare”, dove educazione non sarà, come dovrebbe, una relazione sistemica dove ogni elemento è disposto a trasformarsi in relazione all’altro, ma una non-relazione, un’imposizione da parte di chi sa su chi non sa. E così facendo si perde tutta la ricchezza, anche disordinata e magari disorientata, di cui essi sono portatori.
Si tratta di ascoltare. Porsi in ascolto anche delle loro fragilità e della loro vulnerabilità, che molti di loro rivendicano come un valore e un punto di forza. Non sono sdraiati o bamboccioni, come gli adulti che non capiscono si ostinano a dire, ma sono persone che sono sottoposte a una pressione sociale insostenibile, e che hanno il diritto di sottrarsi a essa, di sottrarsi al giudizio che pende incessantemente su di loro. A volte questo diritto lo sanno articolare, altre volte no, e allora è il loro corpo che parla, che dice no, che si sottrae, con quelle forme di disagio e malessere che vediamo dilagare. E’ in questo senso che stare male è una forma radicale di dissenso implicito rispetto a un mondo in cui si sta a disagio.

Da docente, purtroppo, assisto a comportamenti in cui gli insegnanti tendono a porsi rigidamente sulla difensiva, invece di considerare leducazione unoccasione per rimodulare le proprie posizioni.  Ti chiedo: quale ruolo giocano, in questo atteggiamento, la vanità e il bisogno di continue conferme — tratti tanto diffusi nella nostra società — nel campo educativo?

Esiste chiaramente la questione che gli adulti sono essi stessi persone cresciute in una società narcisistica e individualistica, dunque sono i primi a essere stati fragili per questo, e si muovono nella forbice tra questa propria fragilità e un ritorno nostalgico alla società del tempo che fu. Nel caso specifico degli insegnanti – che troppo spesso non si percepiscono come educatori, nel senso dell’educazione come relazione e sperimentazione, e questo è un problema di formazione – , si irrigidiscono e rivendicano un ruolo disciplinare proprio a fronte dell’incapacità di comprensione e di controllo rispetto a questa velocissima mutazione in atto. Valditara purtroppo rappresenta bene le istanze di una parte consistente del corpo insegnante, anche di quelli che teoricamente sarebbero di “sinistra”. Si tratta della crisi di un sistema che, incapace di far fronte agli “alieni”, reagisce con l’unico strumento che conosce, il rafforzamento dell’autorità. Dove invece si tratterebbe di concepire l’educazione come uno spazio relazionale, e prima di tutto come sperimentazione, apertura, ricerca. Non  produrre sé come un’eccellenza, essere imprenditore di se stesso all’altezza di un modello e di uno standard valutativo. Meno orientamento e più disorientamento, nel senso in cui il filosofo dell’educazione Gert J. J. Biesta afferma che si diventa adulti grazie a processi di interruzione, necessaria per potersi ridefinire in relazione agli altri.

Scrivi: «Quante volte mi è capitato di sentirmi dire: non ho tempo per leggere, devo studiare troppo. E devo studiare tanto perché devo prendere buoni voti. E ripenso a me, che al liceo studiavo quel tanto che bastava fregandomene dei voti, e potevo leggere ciò che mi piaceva; ed è solo grazie a questo che ho compreso le mie passioni e ho potuto creare qualcosa che non c’era».
Anchio penso spesso al valore della lettura come strumento di crescita e di costruzione identitaria. Da studentessa, ricordo le discussioni appassionate con le mie amiche sui romanzi che ci appassionavano, e persino la creazione di riti” per condividere le letture. Quanto ritieni importante la lettura condivisa in classe come pratica formativa?  

Per quanto mi riguarda la lettura la passione della lettura è cresciuta come stata un piacere segreto, intimo. E gli adolescenti di segretezza e intimità hanno necessità, per l’individuazione e la costruzione del proprio Sé. Segretezza necessaria ancor di più oggi, quando si vive sottoposti allo sguardo altrui. Non so quanto la lettura condivisa in classe sia efficace per far nascere una passione, che prende forma da una molteplicità di fattori, ma certamente può creare delle condizioni favorevoli a quel percorso individuale. E, più in generale, di sicuro la condivisione della riflessione è necessaria per favorire un apprendimento che non sia superficiale. Se occorre creare uno spazio relazionale, gli studenti devono essere non solo oggetti di un discorso, ma soggetti attivi, in un ambiente che faccia circolare il desiderio.

A un certo punto del libro riporti una tua conversazione con Cesare Pontalti, psichiatra, psicopatologo e gruppoanalista, uno dei maestri della psichiatria fenomenologica italiana, in cui viene detto che la scomparsa dei compiti esecutivi porta con sé un sentimento di incompetenza, minori risorse di autonomia e di autogestione, e un ulteriore smarrimento. Trovo sia un punto fondamentale, potresti spiegarmi meglio?

Parlavo prima della necessità della segretezza, e questa ha a che fare proprio con la necessità di autonomia. Ciò di cui oggi gli adolescenti hanno più bisogno è proprio l’autonomia. Nella famiglia affettiva odierna, il progetto principale è la costruzione della “felicità” del figlio, ovvero la sua realizzazione sociale e il suo successo, e a questo progetto vengono messe a disposizione tutte le risorse. Il figlio concentra su di sé aspettative, diventa oggetto di proiezioni narcisistiche del genitore, ed esiste come specchio di quelle attese. Di fatto non esiste come sé autonomo.
Pontalti mette in rilievo come vi sia una forte discontinuità, oggi, tra la famiglia e il mondo “là fuori”. I figli oggi sono sempre meno investiti di quelli che lui chiama “compiti esecutivi”, perché nella famiglia affettiva “si è sempre troppo piccoli”, e la famiglia si preoccupa di proteggere il piccolo, sostiuendosi a lui nei compiti esecutivi che un tempo gli erano affidati. La scomparsa dei compiti esecutivi porta con sé un sentimento di incompetenza, minor risorse di autonomia e di autogestione, cosicché l’adolescente si trova esposto al mondo, in una terra di nessuno, senza punti di riferimento, senza una capacità di significazione adeguata. Ne consegue che si fa sempre più fatica a separarsi dalla famiglia. O meglio, è la famiglia a non separarsi dall’adolescente, che è invado dai discorsi genitoriali, dal loro immaginario, dalle aspettative a cui deve rispondere. L’educazione avrebbe questo compito prioritario: favorire un processo di separazione e individuazione del Sé, favorire le condizioni per la creazione di uno spazio di autonomia.

Scrivi che viviamo in una società in cui il mito della ricchezza domina limmaginario e la società dello spettacolo” promette visibilità e status sociale a chiunque. In questo contesto, gli adolescenti coltivano spesso lillusione del denaro facile. Quali sono le conseguenze, sul piano pedagogico, di questo fenomeno?

In una società come questa, fondata sul mito del successo, è inevitabile che siano molti gli adolescenti presi negli incantamenti e nelle seduzioni spettacolari e performative della società degli individui. Per l’adolescente, allora, che in quanto tale si trova a confrontarsi col suo vuoto da colmare – con quell’enigma cui rispondere che precipita nella domanda chi sono io? -, sarà una facile scorciatoia provare a colmarlo con il consumo maniacale delle merci, ciò che permette di fare a meno della relazione con l’altro, così faticosa e rischiosa. Comodo, e quasi naturale, sarà pensare che la mia identità, così evanescente e dipendente dal giudizio altrui, possa trovare consistenza nelle cose. E dunque nel denaro, che è “l’equivalente generale delle merci”, oggetto fra gli oggetti che condensa ogni desiderabilità. In questo senso Pietropolli Charmet dice che I soldi sono un modo di combattere la solitudine, perché dimostrano che ce l’hai fatta, che sei un vincente, e dunque sei desiderabile.
A fronte di questo, l’educazione ha il compito ancora pù decisivo di intensificare la passione, stimolando a confrontarsi davvero con il proprio vuoto, con la domanda ineludibile di soggettivazione. E una scuola burocratico-performativa come quella che abbiamo, in cui prioritari sono le competenze, la valutazione, l’orientamento, non è adeguata allo scopo.
 
Nel trattare linfluenza della realtà virtuale sulla vita degli adolescenti poni questioni puntuali riguardo allo sguardo e allesperienza, evitando condanne moralistiche. Ti chiedi, infatti, quale senso abbia isolare i social dal sociale. Anchio condivido questo punto di vista: la scuola contemporanea investe molto nella formazione digitale, ma nello stesso tempo addita i cellulari come responsabili” di pericolose derive. Potresti chiarire meglio queste contraddizioni?

C’è una tecnofobia che fa molta presa sugli adulti: addossare le colpe ai device è un comodissimo alibi, perché consente di trovare il responsabile della distanza, della solitudine e delle difficoltà degli adolescenti, senza mettere in discussione nulla del proprio mondo – sociale, economico, politico educativo, etico. Ai giovani gli adulti lasciano un mondo al collasso, ma non sentono per questo di avere alcuna responsabilità. Non a caso un libro come La generazione ansiosa di Jonathan Haidt ha avuto un successo straordinario negli Stati Uniti: stabilisce un legame causativo tra uso di Internet e aumento di ansia, depressione, autolesionismo e suicidi, tralasciando quei fatti evidnetemente irrilevanti che sono il “no future”, il rischio di estinzione globale nell’era dell’antropocene, le guerre globali, l’incertezza e la crisi economica, il precariato diffuso, e tutte le questioni di cui abbiamo parlato fino ad ora. Macché, tutto questo non conta, è colpa degli smartphone.
Ecco, non credo vi sia esempio migliore dell’incapacità degli adulti di relazionarsi ai giovani e di poterli comprendere.

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