Ecco l'ultimo libro (L’equazione dei disastri. Cambiamenti climatici su territori fragili) di Antonello Pasini che avremo occasione di incontrare, ospite di InSarzana, sabato 12 alle ore 10,30 nella sala conferenze del Vecchio Ospedale sarzanese, in Via Paci 1. Fisico e climatologo di grande esperienza, da tempo si è proposto nel raccontare e nel portare avanti il difficile e ancora incompreso problema del riscaldamento globale.
L'EQUAZIONE DEI DISASTRI Cambiamenti climatici nei territori fragili
Recensione di Gabriele Olivo da Pandora Rivista
L’acqua alta che causa non pochi disagi a Venezia nel 2019. L’alluvione che nel 2011 colpisce violentemente Genova e i suoi abitanti. Un tornado che si abbatte sulle coste pugliesi nel novembre del 2012. E poi valanghe, frane, esondazioni e centinaia fra morti, feriti e sfollati. Immagini forti, impresse nella memoria di tutti. Eventi drammatici, talvolta catastrofici, e un denominatore comune: il cambiamento climatico. Nel suo ultimo libro L’equazione dei disastri (Codice Edizioni), Antonello Pasini – fisico climatologo presso il CNR e docente di Fisica del clima presso l’Università di Roma Tre – ci spiega come il problema di un clima che cambia non sia figlio di una natura maligna, bensì di un’azione antropogenica. All’analisi tecnica dell’azione climatica sui territoti fragili – corroborata da statistiche e modelli sempre più precisi – l’autore accompagna una profonda riflessione sull’importanza di possedere una cultura del clima adeguata e ci offre l’opportunità di ragionare su come, sin da subito, globalmente e localmente, dovremmo comportarci al fine di arginare la crescita del rischio, il risultato finale dell’equazione dei disastri.
Ad una prima lettura si potrebbe pensare che l’autore goda di attributi oltremodo profetici. Pubblicato nel febbraio 2020, quando la pandemia di Covid-19 era ancora in fase embrionale, il volume esordisce con una prima analisi dell’equazione del rischio che vede come protagonisti l’influenza stagionale e i virus. Esposizione e pericolosità, rischio di contrarre la malattia e patologie concomitanti: questo messo al vaglio da Pasini, quando il termine coronavirus era ben lontano dalle principali tendenze del web. Ma non è tutto. Fra le conseguenze dell’aumento di temperatura, vi è anche la possibilità che alcuni animali, vettori di virus a noi sconosciuti, possano abbandonare il proprio habitat in cerca di ambienti più favorevoli, entrando così in contatto con l’uomo. Tuttavia, questa particolare coincidenza non è contraddistinta da alcunché di premonitore: è, più precisamente, il risultato di accurate previsioni basate su conclamati dati scientifici. Pasini decide dunque di partire dall’influenza – che ci interessa in modo più diretto e i cui effetti si palesano immediatamente – per presentarci, questa volta in ottica di rischio idrogeologico, l’equazione dei disastri:
R = P x (V x E)
In altre parole, il rischio che un evento collegato al clima possa causare danni ad elementi come persone, terreni o infrastrutture, è dato dal prodotto fra la pericolosità di tale evento climatico, la vulnerabilità del territorio e l’esposizione di persone o manufatti. Una semplice relazione matematica che lega tre variabili indipendenti e che permette di stimare, con buona approssimazione, il rischio che un disastro occorra. Sebbene lo scopo sia quello di considerare qualitativamente l’equazione, sottolineando come il cambiamento climatico e i territori fragili interessino direttamente le tre variabili P, V ed E, l’autore fornisce anche una breve analisi quantitativa. Per quanto riguarda i termini che compaiono nell’equazione, vengono considerati tutti indici di valore compreso fra 0 ed 1. Poiché il rischio è dato dal prodotto di tre fattori compresi fra 0 ed 1, anch’esso varierà nel medesimo intervallo, dove un rischio prossimo a 0 viene considerato basso, mentre un valore tendente ad 1 è sinonimo di rischio elevato. La stima dei valori di V ed E – il cui prodotto viene alle volte chiamato “debolezza” – è piuttosto complicata e, per certi versi, soggettiva in relazione ai diversi casi. Quella del fattore di pericolosità P è invece ottenibile mediante un approccio probabilistico, tenendo in considerazione ciò che è accaduto in passato. È possibile quindi ottenere, in termini di probabilità, una stima del rischio a cui è soggetto un territorio in un determinato lasso temporale. Senza modificare eventuali condizioni al contorno, ovvero non considerando gli influssi esterni che possano in qualche modo intervenire sulle tre variabili, è lecito aspettarsi che l’evento – e il rischio ad esso associato – occorra con le stesse probabilità evidenziate storicamente. Tuttavia, le tre variabili P, V ed E non rimangono sempre le stesse: nel recente passato i valori in gioco stanno spostandosi tutti verso quota 1, accrescendo notevolmente il rischio.
Tempo meteorologico e clima non sono la stessa cosa. Se il primo è relativo allo stato dell’atmosfera in un determinato luogo e ad un dato istante, il secondo ha invece un significato statistico. Il clima rappresenta infatti l’insieme di informazioni che si ottengono analizzando l’andamento di alcune grandezze – come temperatura, pressione e umidità – in un tempo prolungato e su vasta scala territoriale. Confrontando quindi i dati relativi a diversi periodi, possiamo apprezzare i cambiamenti che il clima ha subito nel tempo. Un’altra differenza sostanziale risiede nel fatto che il modello meteorologico è sensibile alle condizioni iniziali dell’atmosfera, mentre quello climatico dipende fortemente dagli influssi esterni, altresì detti forzanti. Dunque, per sapere come varierà negli anni il fattore di pericolosità P, relativo ad un dato evento climatico, sarà necessario basarsi sui risultati dei modelli climatici. Questi modelli matematici sono in grado di ricostruire con estrema precisione la situazione climatica del precedente secolo – la cui veridicità è comprovata dalle misurazioni sperimentali registrate negli anni. A questo punto, giocando sui numeri e modificando i valori delle forzanti esterne, è possibile simulare diversi scenari. Questo metodo è utile non solo per valutare l’evoluzione futura del clima, ma anche per capire quale influsso esterno sia alla base del riscaldamento globale degli ultimi cinquant’anni. L’autore ci mostra come tutti i GCMs – Global Climate Models – convergano sullo stesso punto: le cause del recente innalzamento della temperatura media superficiale – pari a circa 1°C rispetto ai livelli preindustriali – sono da ricercare nell’aumento del valore delle forzanti di origine antropogenica. In assenza di azioni quali, per esempio, deforestazione ed emissione di gas serra, la temperatura sarebbe rimasta pressoché costante. Risultati del tutto analoghi sono stati ottenuti utilizzando un modello a rete neurale, una sorta di cervello artificiale, sviluppato dallo stesso Pasini, che utilizza un approccio differente rispetto ai metodi classici. I modelli ci offrono un ventaglio di proiezioni per il futuro che vanno da quelle più ottimistiche, figlie di un immediato intervento di mitigazione, sino allo scenario business as usual, che non prevede alcun intervento di riduzione delle emissioni – in particolare quelle di CO2, generate dall’uso indiscriminato di combustibile fossile – e che comporterebbe un incremento di 5°C per fine secolo rispetto ai livelli preindustriali.
Interessante è il caso italiano. Qual è l’andamento del fattore di pericolosità P nel nostro Paese? In Italia si riscontra un aumento di temperatura media pari a circa 2°C negli ultimi cento anni. Tale incremento, praticamente il doppio rispetto alla media globale, incide non poco sulla pericolosità degli eventi climatici ed è dovuto principalmente a due fattori. In primo luogo, bisogna considerare che l’Italia è una penisola ed è quindi circondata in gran parte dal mare. Sebbene l’acqua possieda una maggiore inerzia termica rispetto alla terraferma, è comunque soggetta a riscaldamento. Naturalmente un mare più caldo tende ad una maggiore evaporazione: il trasporto per convezione di grandi quantità d’aria calda in quota costituisce l’innesco al processo di formazione di nubi temporalesche, responsabili di violenti piovaschi. A causa dell’aumento di temperatura degli ultimi anni, questi eventi stanno diventando sempre più intensi e frequenti. Basti pensare all’alluvione che colpì Genova nel novembre del 2011. I dati climatologici registrati dall’INGV – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia – mostrano che la temperatura in prossimità del Mar Ligure fosse di ben 3°C superiore alla media di quel periodo. Un altro esempio di come un mare più caldo aumenti la frequenza e l’intensità degli eventi climatici è dato dalle trombe marine, i cui avvistamenti si sono moltiplicati negli ultimi anni. Caso noto alla cronaca è quello di Taranto, dove nel novembre 2012 un tornado causò ingenti danni e addirittura una vittima. Pasini sottolinea un concetto importantissimo: i disastri ambientali non sono da imputare unicamente all’aumento di temperatura, le concause sono molteplici. Tuttavia, è altamente probabile che livelli di temperatura più contenuti, in linea con i valori preindustriali, avrebbero evitato la formazione delle supercelle dei tornado o eventi temporaleschi estremamente violenti. La seconda considerazione da fare sul fattore P è legata alla particolare situazione dell’Italia nel Mar Mediterraneo. Secondo l’autore, il nostro Paese ricoprirebbe una posizione di frontiera fra il continente europeo e quello africano. Situato fra due centri di azione climatica, il Mediterraneo si affaccia sull’anticiclone africano a sud e sulle medie latitudini a nord. Il recente cambiamento climatico ha comportato una traslazione della circolazione verso nord, spostando l’influsso delle correnti africane sempre più a ridosso delle nostre latitudini. Poiché queste ultime non permangono a lungo, sovente capita che vengano scalzate dall’incursione, prepotente, dell’aria fredda settentrionale: quando i due fronti opposti interagiscono, si innescano violente precipitazioni temporalesche. Sembra dunque che in futuro, con la temperatura del mare in sensibile rialzo, la zona del Mediterraneo sarà soggetta a lunghi periodi di caldo e siccità intervallati da sempre più frequenti e intense piogge.
Per poter avere un’idea del rischio legato a questi fenomeni non basta solo calcolarne la pericolosità: è altrettanto importante conoscere il territorio con le sue peculiarità, la sua fragilità e il grado di antropizzazione. In altre parole, bisogna analizzare il fattore (V x E), ovvero il secondo termine dell’equazione, a cui l’autore dedica il terzo capitolo del volume. Pasini mette dunque in evidenza le caratteristiche del territorio italiano, noto per la massiccia presenza di rilievi montuosi e zone collinari. Questa particolare morfologia influisce non poco sui fenomeni convettivi, rendendo il nostro Paese più incline a precipitazioni violente. L’acqua versata durante gli eventi atmosferici, siano essi rapidi e violenti o modesti ma duraturi, viene raccolta nei bacini idrografici, un esteso sistema di fiumi e torrenti presenti sul nostro territorio. Col tempo, le azioni umane hanno influito sulla struttura dei bacini, modificandoli e finendo per alterarne la capacità di drenare l’acqua proveniente dai rovesci. Fra le conseguenze degli influssi antropogenici sul territorio, si annovera un incremento di fenomeni come frane, alluvioni ed inondazioni, talvolta innocui e non preoccupanti, talvolta devastanti. L’autore, quindi, precisa quelle che sono le attività umane che, oltre ad indebolire un territorio già fragile di per sé, aumentano l’esposizione di persone e infrastrutture. Fra le principali non manca la sempre maggiore antropizzazione delle città, che ha contribuito a cementificare le superfici rendendo il suolo impermeabile, oltre ad aumentare la quantità di emissioni nocive e a ridurre le aree occupate da alberi e vegetazione. Anche gli insediamenti costieri, frequenti soprattutto nelle regioni turistiche, hanno portato ad un abuso dei litorali e ad un’instabilità delle opere di urbanizzazione circostanti.
Pare dunque evidente la presenza di una stretta correlazione fra i tre termini dell’equazione e le azioni umane. Se da un lato la situazione attuale risulta decisamente preoccupante, dall’altro, sapere che non siamo vittime di una natura maligna, ma delle nostre stesse scelte, ci offre l’opportunità di cambiare, di invertire la rotta.
La drammaticità dei capitoli centrali si riflette nel quarto e penultimo, in cui Pasini “tira le somme”. Tutti e tre i fattori coinvolti nella determinazione del rischio, sostiene l’autore, prevedono una tendenza al rialzo nel prossimo futuro. Per quanto riguarda P, questo è fortemente legato al cambiamento climatico e all’inerzia ad esso associata, per cui anche un’imminente mitigazione non sarebbe sufficiente ad eludere le conseguenze di quanto perpetrato sinora. La debolezza, (V x E), come già visto, è associata al territorio e senza interventi mirati all’utilizzo più cauto del suolo e ad un contenimento della sempre crescente antropizzazione, le prospettive non possono che essere infauste. Un ottimo spunto di riflessione è quanto affermato da Pasini quando sostiene che in Italia siamo molto bravi a fronteggiare il rischio contingente, intervenendo lesti nel caso di un’emergenza, ma insufficienti nel prevenire quello potenziale. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che, a partire da subito, cittadini e politici – localmente e globalmente – sono chiamati a concentrare tutte le forze. Mai come oggi è necessario far fronte comune, al fine di evitare lo scenario peggiore. Al fine di evitare un disastro programmato. Per dare un futuro alle generazioni a venire e poter continuare a chiamare “casa” questo fragile e prezioso pianeta.
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