Ricordiamo la nuova inaugurazione del MONUMENTO ALLA DEPORTAZIONE che avverà in due momenti distinti, giovedi 31 ottobre 2024.
Il primo, alle ore 10,30 nel Cimitero comunale di Sarzana, Via Falcinello 1, con l'inaugurazione vera e propria.
Il secondo, alle ore 18,30, nei locali dello Spazio Espositivo dell'Associazione artistica Factory in Via Fiasella 64 con la presentazione della mostra d'arte ispirata al monumento stesso. Nell'avvicinamento all'evento vogliamo sottolineare alcuni particolari relativi ai luoghi della deportazione riportati su questo manufatto che risale alla fine degli anni' 70, eretto su progetto dell'architetto Gianfranco Damiano, e che venne voluto dalla allora consigliatura sarzanese presieduta dal sindaco Anelito Barontini.
Immagine stilizzata del Monumento |
Il monumento voleva ricordare il dramma della deportazione di massa a partire dalla seconda guerra mondiale fino a quegli anni '70 di fine decennio (tragedia, ahimè, continuata ancora oggi, con perfido slancio) e dunque, come si può osservare nell' immagine stilizzata sopra riportata, è composto da cinque lastre di cemento armato poste in verticale che riportano i nomi di altrettanti luoghi di violenta e terribile deportazione (dai tristemente noti luoghi dell'Olocausto come Treblinka e Auschwitz ai profughi della Palestina e dell'eccidio di Tal Al Zatar, dai rinchiusi cileni nello stadio di Santiago del Cile durante la dittatura di Pinochet al tristissimo, e per certi versi eclissato, campo di concentramento italiano della Risiera di San Sabba, istituito a Trieste nel 1943) La sesta lastra, orizzontale, riportava la dedica in varie lingue a tutti coloro che avevano subito questo atroce martirio.
Vorremmo, allora, ricordare qualcosa della storia di questi luoghi e di quanto vi avvenne.
Cominciamo con un luogo e un ricordo estremamente doloroso perchè si sposa, purtroppo, con un presente aberrante e tragico, mostrando, nello stesso luogo del pianeta, come quasi nulla sia cambiato nel comporre uno violento palcoscenico dove un intero popolo tenta da decenni di trovare il luogo di una giusta e compiuta collocazione umana.
TELL AL-ZAT'AR (La Collina del Timo)
di Marcello Lorrai da Radio Popolare
Quarantotto anni fa, il 12 agosto 1976, arrivava al suo tragico epilogo l’assedio del campo di Tall el Zaatar, a Beirut, uno dei capitoli più drammatici ma anche meno ricordati della vicenda del popolo palestinese. Assai meno poetica del nome che porta, nel 1976 Tall el Zaatar è una bidonville situata a Beirut-est, la parte cristiana della città. Un gigantesco campo profughi che raccoglie circa 30 mila persone: in maggioranza palestinesi ma anche ex contadini del Libano meridionale, armeni poveri, kurdi, in gran parte operai nelle numerose fabbriche sorte nella zona approfittando di questo serbatoio di manodopera a basso costo. La popolazione palestinese, la parte più povera del campo, rappresenta la tragica sedimentazione di diverse ondate di profughi: i primi sono arrivati dopo il ’48, scacciati dalla loro terra, altri nel ’67, dopo la guerra dei sei giorni, altri ancora nel ’70, dopo il “settembre nero” in Giordania; i libanesi invece sono approdati a Tall el Zaatar cercando scampo dai bombardamenti israeliani nel sud del Libano.
Le condizioni di vita sono proibitive: in 300 mila metri quadri, gli abitanti sono stipati fino a sfiorare le dieci persone per vano disponibile. Assieme con altre bidonville, come quella della Quarantine, nei pressi del porto, Tall el Zaatar fa parte della “cintura rossa” di Beirut. Isole in mezzo al mare in tempesta della guerra civile libanese. Intorno a Tall el Zaatar c’è l’odio della piccola borghesia cristiana che abita i quartieri circostanti, l’ostilità nei confronti di un campo che non si accontenta di essere un intollerabile ghetto musulmano-palestinese in territorio cristiano, ma che è addirittura diventato una orgogliosa roccaforte politico-militare degli uomini dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Arafat e dei progressisti libanesi di Jumblatt.
Preceduta da una violenta campagna del partito delle falangi contro la presenza palestinese in Libano, la guerra è iniziata nel ’75: uno degli episodi che fanno da detonatore al conflitto è l’uccisione di ventisette libanesi e palestinesi che vengono assassinati mentre dal campo di Sabra – anch’esso destinato a diventare tristemente famoso – stanno andando in autobus proprio a quello di Tall el Zaatar. Nel corso della guerra civile le milizie conservatrici decidono di “omogeneizzare” il loro settore della capitale e quindi di eliminare le diverse enclaves “non cristiane”. Dopo aver “ripulito” il piccolo campo palestinese di Dbayeh nei pressi di Jounieh, facendo centinaia di morti, all’inizio del ’76 i falangisti passano al quartiere della Quarantine: tutti gli abitanti che non fanno in tempo a fuggire vengono passati per le armi. La pressione falangista su Tall el Zaatar comincia a farsi pesante in gennaio, con i primi combattimenti intorno al campo. Dopo la strage della Quarantine l’assedio di Tall el Zaatar è ampiamente messo in preventivo. Qualche migliaio di libanesi se ne va prima che sia troppo tardi, i palestinesi e i libanesi più politicizzati rimangono: si scavano gallerie, si rafforzano i bunker di cemento armato, si allestisce un piccolo ospedale con materiale cinese, si costituiscono riserve di viveri, armi e munizioni.
L’assedio e la distruzione del campo di Tall el Zaatar costituisce – commenta oggi il giornalista Stefano Chiarini – “l’epilogo di un vero e proprio processo di pulizia etnica ante litteram, portata avanti dalle milizie falangiste cristiane per eliminare dalla parte orientale di Beirut, da loro controllata, qualunque presenza palestinese, musulmana, progressista”.
La Siria è intervenuta in Libano presentandosi come pacificatrice per salvare dalla disfatta le milizie della destra in difficoltà di fronte all’offensiva del fronte composto dall’Olp e dalle sinistre libanesi, che controllano i quattro quinti del Libano: i progressisti sono ostili al progetto di “Grande Siria” che è nelle mire di Damasco e che trova invece appoggi fra le destre libanesi. La battaglia di Tall el Zaatar corrisponde anche all’intento di rilanciare la guerra civile e il ruolo “pacificatore” della Siria, costretta il 21 giugno a firmare un “cessate il fuoco” con i palestinesi. La morsa intorno a Tall el Zaatar comincia a stringersi proprio il giorno dopo, il 22. L’iniziativa è delle milizie di destra del Partito nazional-liberale. I falangisti li seguono qualche giorno dopo.
L’assedio è possibile non solo grazie al via libera di Israele, sponsor delle formazioni di destra (il capo delle feroci guardie del Credo, Abu Arz – ricorda Chiarini – vive oggi nel nord di Israele), ma soprattutto per l’appoggio di Damasco. Ufficiali siriani e israeliani visitano e osservano a lungo le operazioni belliche contro i difensori dell’Olp. Dal 22 al 30 Tall el Zaatar è sottoposta a bombardamenti sistematici. Nell’assedio sono impegnate migliaia di uomini, con carri armati, obici, lanciarazzi, missili terra-terra, mitragliatrici pesanti. A cercare di arginarli circa duemila combattenti palestinesi e libanesi. Ai primi di luglio un tentativo dei falangisti di penetrare nel campo è respinto con forza. Gli assedianti scelgono allora i tempi lunghi. Giorno dopo giorno le artiglierie falangiste martellano Tall el Zaatar. Per rifornirsi d’acqua gli abitanti devono uscire allo scoperto e raggiungere uno della ventina di punti di distribuzione disponibili: un migliaio di cecchini appostati sugli edifici più alti dei quartieri circostanti tiene sotto tiro le fontanelle, facendo centinaia di morti. Non sono pochi gli occupanti del campo che muoiono di fame, di sete, di tetano, di cancrena. I cannoni siriani entrano in azione per impedire alle colonne palestino-progressiste che cercano di raggiungere Tall el Zaatar di rompere l’accerchiamento. Senza acqua, senza medicinali, Tall el Zaatar resiste, con una radio come solo collegamento con l’esterno.
L’assedio dura cinquantadue giorni. Dopo più di settanta attacchi i difensori, ormai stremati, pongono fine alla resistenza per decisione dell’Olp: una parte dei combattenti riesce a passare attraverso le maglie dello schieramento avversario e a mettersi in salvo. Nel corso delle trattative per la resa, i falangisti garantiscono all’Olp e alla Croce Rossa l’incolumità per i civili. Il 12 agosto il campo di Tall el Zaatar cade. Per molti degli scampati che escono come fantasmi dalle rovine di Tall el Zaatar l’illusione della salvezza dura pochi istanti o poche ore: sono le vittime del macello a cui si abbandonano gli assedianti, tradendo le promesse fatte, e gli abitanti cristiano-maroniti del quartiere Quany, attraverso il quale i superstiti devono passare per allontanarsi da Tall el Zaatar. Per loro i cristiani hanno in serbo una spaventosa via crucis: fra esecuzioni sommarie di massa, sevizie, atrocità di ogni genere, che non risparmiano bambini, donne, vecchi, i morti superano i 2 mila nel solo giorno della resa. I cadaveri vengono gettati su camion, portati sulla collina, scaricati tra le rovine e ricoperti di cemento coi bulldozer. (…) Beirut-est è divenuto un settore esclusivamente cristiano controllato dalla destra. La collina del timo è diventata “la collina della vergogna” (1)
- Titolo del reportage di Mark Kravetz su “Tempo”, 15 agosto 1976.
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