19 febbraio 2025

Conferenza/Dibattito HA ANCORA SENSO LA GIORNATA DELLA MEMORIA? 4-Cinema, società italiana e percezione della Shoah nel primo dopoguerra (1945-1951).

 

Ecco un argomento particolare, quello del cinema, che ci permette, ancora una volta e da un'altra angolazione, di approcciare la domanda fatidica sul senso della Giornata della Memoria che vorremmo porre, in maniera evidentemente provocatoria LUNEDI 24 FEBBRAIO prossimo, ALLE ORE 17,30 NELLA SALA CONSIGLIARE DEL COMUNE DI SARZANA ai relatori e al pubblico presente.




L'articolo che segue è un capitolo del libro: Cinema e Storia 2013, La Shoah nel cinema italiano a cura di Andrea Minuz e Guido Vitiello. L' oggetto di questo capitolo è la percezione della Shoah nel cinema e nella società italiana del primo dopoguerra, interrogata attraverso la lettura di importanti documenti ministeriali prodotti dall’ufficio di revisione cinematografica tra il 1947 e il1951.  Si ricostruiscono soprattutto le vicende della distribuzione italiana de L’ultima Tappa (W. Jakubowska, 1948) e si propongono più in dettaglio una lettura di Roma città aperta (R. Rossellini, 1945) e Accidenti alla guerra! (G. Simonelli, 1948), insolita commedia ambientata in un istituto di eugenetica, pressoché sconosciuta.


Una scena del film polacco L'Ultima Tappa, 1948 di W. Jakubowska

Cinema, società italiana e percezione della Shoah nel primo dopoguerra (1945-1951)


Il contesto italiano

Nella costruzione della memoria della Shoah, il primo dopoguerra costituisce un periodo di complessa decifrazione. Com’è noto, si tratta di un passaggio compreso tra il trauma della scoperta dei campi e l’inizio di una fase di rimozione che oscura la specificità ebraica e la portata epocale dello sterminio almeno fino al decisivo tornante storico del processo Eichmann, nel 1961. Questo schema generale non può evidentemente dar conto dei percorsi memoriali nei singoli contesti nazionali, tuttavia fornisce una prima mappa di orientamento utilizzata anche negli studi sul cinema e la Shoah. Escludendo i filmati mostrati al processo di Norimberga e i documentari prodotti dagli Alleati, diffusi nei cinegiornali e ben presto tolti dalla circolazione, nel primo dopoguerra si contano infatti pochi titoli isolati.

Per quanto riguarda l’Italia, l’assenza di riferimenti alla Shoah in un cinema che grazie ai film neorealisti attraversava una delle stagioni più significative della sua storia, diventando l’agente decisivo del riscatto nazionale, va collocata nel quadro della particolare vicenda di un Paese appena uscito dal fascismo. Un Paese in cui «l’intera classe dirigente antifascista utilizzò il discorso sulla persecuzione antiebraica a fini politici, enfatizzando la buona condotta degli italiani rispetto alla furia eliminazionista dei tedeschi per dissociare le responsabilità dell’Italia da quelle della Germania nazista e ottenere dalle potenze vincitrici un trattamento favorevole al tavolo della pace»  . Il rapido processo di defascistizzazione della società, la celebrazione del mito del «bravo italiano» e l’innesco di una euforica narrazione antifascista con la conseguente «resistenzializzazione delle vittime ebree del genocidio» definiscono quindi il perimetro entro il quale prende forma la rimozione italiana della Shoah (in un quadro complicato ulteriormente dal cono d’ombra delle vicende legate al mondo cattolico). Alla teoria del fascismo come «parentesi» elaborata da Croce nel 1944 fa da contraltare il celebre rifiuto del manoscritto di Se questo è un uomo , presentato da Primo Levi ad Einaudi alla fine del 1946 e ritenuto dalla casa editrice antifascista per eccellenza «inadeguato al frizzante clima di allegria di una nazione inebriata dalla fine di un incubo»  .

Tra le poche eccezioni cinematografiche in un contesto di generale disinteresse per le vicende della Shoah si citano Il monastero di Santa Chiara (I. Senese, 1949), un melodramma costruito attorno alla vicenda di Ester Di Veroli, cantante ebrea contesa tra un italiano e un capitano delle SS, in cui si accenna alle vicende dei campi di concentramento; Il grido della terra (D. Coletti, 1949), che racconta un episodio del conflitto in Palestina prima della nascita di Israele, e soprattutto L’ebreo errante (G. Alessandrini, 1948), considerato però dagli studiosi più come sintomo della persistenza di radicati stereotipi antisemiti della cultura cattolica che come una testimonianza dell’orrore dei campi.

In questo articolo interrogheremo la percezione della Shoah nel cinema e nella società italiana del primo dopoguerra cercando di assumere una posizione inedita e delineare uno scenario più complesso. Ci avvarremo della lettura di importanti documenti ministeriali prodotti dall’ufficio di revisione cinematografica tra il 1947 e il 1951, grazie ai quali è possibile ad esempio ricostruire le vicende della distribuzione italiana di un’opera decisiva per la memoria cinematografica della Shoah come L’ultima tappa (W. Jakubowska, 1948), di cui ci occupiamo nel primo paragrafo. Di seguito, proponiamo una lettura di Roma città aperta (R. Rossellini, 1945) e Accidenti alla guerra! (G. Simonelli, 1948), qui considerati assieme nel tentativo di individuare le trame di un orizzonte genealogico del cinema italiano di fronte alla Shoah. Pur non rientrando nel canone della letteratura sull’«Holocaust Film», tali film permettono infatti di isolare alcuni motivi e strategie discorsive che ritroveremo negli anni a venire, oltre che dar conto a loro modo della percezione della Shoah in Italia subito dopo la guerra. Dedicheremo più spazio ad Accidenti alla guerra! , un film insolito, praticamente mai citato nei lavori sul tema anche perché poco noto, eppure ricco di motivi di interesse trattandosi di una commedia con gag d’avanspettacolo ambientata quasi interamente in un improbabile istituto di eugenetica.

L’esiguo corpus di film italiani che avvicinano la Shoah negli anni 1945-1949 presenta i contrastanti processi di rimozione in atto nella società all’indomani della guerra; allo stesso tempo, come cercheremo di vedere, si tratta di un decisivo periodo di incubazione di motivi visivi e narrativi che subiranno poi una nuova rielaborazione alla luce della spinta didattico-memoriale impressa dal primo anniversario della fine della guerra e della Liberazione, nel 1955.

L’ultima tappa e la censura italiana

Nei documenti dell’Ufficio di revisione cinematografica relativi alla prima legislatura della Repubblica si trovano i segni tangibili del repentino processo di defascistizzazione della società italiana. Si prenda il caso della revisione di censura per Vertigine , un melodramma decadente di coproduzione italo-tedesca, realizzato da Guido Brignone nel 1941. Nel 1947 la commissione ne riammetteva la circolazione nelle sale a patto che venissero «eliminati i nomi degli interpreti tedeschi del film». Significativo anche questo appunto della censura in riferimento a Un’ora di felicità , una commedia tedesca del 1938 diretta da Hebert Maisch, anch’essa destinata a una nuova circolazione nelle sale italiane: «[…] revisionato il film il 26.06.1947 si approva a condizione che venga tolta la scena della bandiera nazista vicino alla bandiera italiana nel ristorante della stazione, ultimo rullo».

Sono soltanto alcuni esempi, ma sufficienti a dare la misura del ruolo svolto dalla censura cinematografica nella rimozione dell’alleanza con il nazismo e nell’avvio di una pacificazione della società post-bellica fondata sul mito del bravo italiano. Le coproduzioni italo-tedesche precedenti alla guerra costituiscono un caso emblematico di cancellazione del passato, ma con l’avvio della Guerra Fredda tutti gli argomenti legati al fascismo e alla Resistenza verranno sottoposti a numerosi tagli o bloccati sul nascere. A tale scenario va ricondotta la revisione del film polacco L’ultima tappa (Ostatni Etap ).

Scritto e diretto da Wanda Kakubowska nel 1947, girato nei luoghi dello sterminio prima che molti campi venissero distrutti o convertiti in memoriali, L’ultima tappa è un film che oggi ha assunto un ruolo fondativo ed è unanimemente considerato come uno dei primi, più importanti contributi a una costruzione cinematografica della memoria della Shoah. Il fatto che la stessa regista e alcuni attori utilizzati avessero vissuto direttamente l’esperienza della deportazione lo rende inoltre una significativa riscrittura testimoniale all’interno delle strutture narrative del cinema di finzione. L’ultima tappa introduce motivi decisivi in quella che sarà l’iconologia della memoria cinematografica della Shoah, come le immagini dell’arrivo dei treni nei campi – e alcune sequenze del film verranno incluse nel documentario di Alain Resnais Notte e nebbia (1955) nonché esplicitamente citate da Steven Spielberg in Schindler’s List (1993).

Nel 1948, il film viene presentato alla Nona mostra d’arte cinematografica di Venezia in rappresentanza della Polonia. Non riceve premi, ma è ben considerato dalla critica internazionale e ottiene subito una distribuzione all’estero. La United Nations Film Board promuove la circolazione del film «in virtù delle sue qualità morali e artistiche» e all’inizio del 1949 esce negli Stati Uniti con il titolo The Last Stop. Nelle anteprime newyorchesi la critica loda il film e lo colloca nel solco del cinema neorealista italiano; Bosley Crowther, il critico del «New York Times», evoca direttamente i film di Rossellini Paisà (1948) e Roma città aperta ; aspetto su cui insiste anche la pubblicità del cinema World Theater, che fa leva sulla diretta filiazione di una pellicola che il pubblico vedrà nella stessa sala dove ha scoperto i capolavori del neorealismo italiano:

Another Great Film comes to the World! The World Theater that gave you Open City and Paisan is now proud to present another outstanding film The Last Stop .

Diverso il caso dell’Italia, dove la commissione censura ha bloccato il film. Come si legge in un appunto del 17 marzo 1951:

[...] Trattasi di un film di scarso valore artistico, la cui vicenda è avvolta quasi sempre, per il suo tono violento, in un’atmosfera di incubo. La Commissione ha espresso parere contrario alla programmazione del film nelle pubbliche sale in quanto esso contiene scene truci e ripugnanti.

Poco meno di un mese dopo, la Herald Pictures, la società di distribuzione del film, invia una lettera all’attenzione della Presidenza del Consiglio dei Ministri:

Preghiamo vivamente codesta On. le Commissione di Appello di voler esaminare il film Ultima tappa e di volerci concedere il relativo visto tenendo presente le considerazioni seguenti: 1) Il film è stato proiettato con enorme successo di critica e di pubblico in quasi tutte le principali città degli Stati esteri trattandosi di produzione di classe artisticamente molto elevata e quindi al di sopra di ogni bassa speculazione commerciale sulle reazioni del pubblico agli orrori dei campi di concentramento di Auschwitz. 2) Nel film non figura alcuna scena riguardante le uccisioni in massa nelle camere a gas né altre scene di eccessiva crudeltà. L’esposizione degli orrori avvenuti nel campo di concentramento è fatta in maniera equilibratissima e molto limitata. 3) In altri films del genere e nelle varie pubblicazioni a stampa i crimini commessi nei campi di concentramento sono stati esposti in maniera assai più cruda e realistica. Questo film è stato invece elogiato appunto per l’estrema delicatezza con cui è stato trattato l’argomento. 4) Il film è stato prodotto sotto l’alto patronato nell’ufficio cinematografico dell’O.N.U. (Organizzazione Nazioni Unite) e quindi è da escludersi in modo assoluto che il film stesso possa avere altre finalità che non siano umanitarie e morali. 5) Il rifiuto della concessione del visto ha già danneggiato enormemente la distribuzione del film ed è per questo che preghiamo vivamente Codesta On. le Commissione di voler sollecitare al massimo la concessione del visto medesimo.

Alla fine del 1951, la commissione di secondo grado esprime parere favorevole e concede il nulla osta (n° 10975 del 30/11/1951). Ma i tagli alla pellicola sono numerosi:

La Commissione di revisione cinematografica di 2° grado, revisionato il film del titolo Ultima tappa di nazionalità polacca, ritiene, allo stato, che debbano modificarsi le battute del dialogo, segnate a pag. 6,11,12,15,16,17,18,19,20,22,23,39,47,51; ed in generale, eliminate tutte le scene truci e ripugnanti, sopprimendo, in particolare, quelle della iniezione letale praticata al bambino, della tortura alla donna e della donna chiamata fuori dai ranghi ed uccisa. Si riserva di dare il proprio definitivo parere circa il nulla osta alla proiezione in pubblico, dopo ulteriore revisione del film con le modifiche ed eliminazioni sopra indicate.

Rendere una pellicola illeggibile e creare un sicuro fallimento in sala era la principale strategia messa in atto dalla censura quando si trovava costretta a far circolare un film. Circolazione che restava comunque assai limitata ed era concessa al solo scopo di dimostrare lo scarso interesse del pubblico (prova ne è che, secondo il sito Internet Movie Database, L’ultima tappa non sarebbe mai uscito nei cinema italiani). Come attesta il nulla osta della censura, il film di Wanda Jakubowska fu invece distribuito nelle sale ma non attirò (e non poteva attirare) l’attenzione della critica, tantomeno del pubblico italiano. È interessante tuttavia considerare la pubblicità curata dalla Herald Pictures per la distribuzione italiana, dove a differenza della stampa americana non c’è alcun riferimento al cinema neorealista. Nella locandina del film, ricalcata attorno ai modelli iconografici del melodramma di guerra, attorno a un rettangolo con una foto di scena di un ufficiale delle SS vediamo il volto di una donna che emerge tra le fiamme e il filo spinato; il payoff recita: «Contro tutte le atrocità! Contro tutte le guerre!». Di fianco all’immagine il testo: «Cinque milioni di fantasmi cercano ancora nelle strade di fango il loro calvario… un film indimenticabile interpretato dalla tragica umanità che sopravvisse alla tragica angoscia dei campi di eliminazione».

L’enfasi universalistica, il richiamo a una tragica umanità e ai «campi di eliminazione» sono in sintonia con la più ampia strategia della propaganda alleata di guerra a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta che poneva sullo stesso piano tutte le vittime della violenza nazista. Ma la specifica vicenda italiana del film, che per molti anni resterà tra i tentativi cinematografici più lucidi nella rappresentazione dell’orrore dei campi, dà conto di un contesto segnato da un processo di rimozione più ampio, profondo e pervasivo.

Roma città aperta e l’«Holocaust Film»

Interrogandosi sull’assenza di riferimenti alla Shoah nei film neorealisti italiani, Millicent Marcus afferma che la scarsa attenzione per l’Olocausto italiano è tanto più sorprendente se si considera che il neorealismo è stato «il mezzo basilare attraverso il quale il Paese si è confrontato con le sue colpe più dolorose e riprovevoli, ed è stato chiamato ad assumersene la responsabilità collettiva». Come è stato notato, il ghetto ebraico è assente nello spazio urbano rappresentato in Roma città aperta . Sarà poi il film del 1961, L’oro di Roma, di Carlo Lizzani, a raccontare le vicende del ghetto durante l’occupazione nazista (un fugace accenno lo troviamo in un dialogo iniziale de Il grido della terra , in cui si dice che «tutti gli ebrei del quartiere erano stati razziati dai tedeschi otto mesi prima»).

Il mancato incontro tra neorealismo e Shoah riguarda però anzitutto la differenza tra le vittime del nazismo, così come veniva percepita all’epoca dalla società italiana. Erano infatti i corpi dei partigiani torturati e impiccati nelle città a rappresentare l’emblema della crudeltà nazista, mentre la sorte degli ebrei non lasciava altrettanti segni tangibili nella popolazione:

La cattura di partigiani ne prevedeva, normalmente, anche l’eliminazione immediata, quasi sempre accompagnata da forme di tortura, mentre agli ebrei spettava la concentrazione, la deportazione; destino dall’esito finale angosciante, oscuro, ma dotato dell’alone di incertezza di ciò che nessuno ha direttamente visto; la stessa enormità della organizzazione scientifica dello sterminio ne rendeva i concreti termini «incomprensibili», per certi versi incredibili. I corpi martoriati, esposti, esibiti come monito e come trionfo della crudeltà senza limiti sono quelli dei partigiani […].

Non a caso, le prime notizie della stampa italiana sui campi dettero grande enfasi agli aspetti più macabri della crudeltà tedesca offrendo dettagli sulle varie forme di sadismo, sui supplizi, sugli esperimenti scientifici. Inoltre, l’esiguo materiale visivo circolato sui giornali italiani (materiale di seconda mano proveniente dalla stampa alleata) si disinteressò per lo più delle vittime concentrandosi sui carnefici, «ritratti con morboso interesse» come nel caso delle immagini degli impassibili imputati di Norimberga o delle cosiddette «belve di Belsen». Un immaginario dei carnefici che nutrirà gli stereotipi del cinema di genere a venire e in cui non di rado nella stampa dell’epoca confluiva anche il racconto del collaborazionismo femminile, in un’immagine pubblica costruita attorno alle figure della prostituta o dell’amante dei fascisti e dei tedeschi. Questi aspetti vengono intercettati con grande tempestività dal film di Rossellini.

A Roma città aperta sarebbe così ascrivibile l’incubazione di un motivo specifico della filmografia italiana sull’Olocausto che si svilupperà in seguito, soprattutto negli anni Settanta, quando numerosi film avvicineranno il nazismo nella chiave di un’oscura, morbosa fascinazione erotica come sfondo in cui calare il rapporto vittima/carnefice. Tale tendenza, da ricondurre alla più vasta pansessualizzazione della cultura popolare del decennio, sarebbe inaugurata proprio dal film di Rossellini. Il riferimento è al rapporto che lega Marina, l’amante del capo della Resistenza, e Ingrid, l’agente della Gestapo dai lineamenti androgini. La tossicodipendenza di Marina fornisce la giustificazione a un rapporto morboso, ma connotato anche da una attrazione sessuale che il film esibisce in modo palese. La condanna morale di Marina, che poi denuncerà Manfredi alla Gestapo, è dunque implicita. Si prenda il caso della sequenza della tortura di Manfredi. Rossellini mostra i due spazi adiacenti della sala dell’interrogatorio, da cui sentiamo le urla dell’uomo, e del salone, dove vediamo Ingrid e Marina sdraiate sul divano mentre ascoltano la musica suonata al pianoforte, fumando e bevendo con altri soldati. Un montaggio che definisce così anche un topos decisivo dell’«Holocaust Film» che si svilupperà in seguito; ovvero, quel gioco di contrasti e allo stesso tempo di continuità tra atmosfere di elegante decadenza e sadismo, tra tortura e pulsione erotica, tra la musica colta, emblema della raffinata cultura tedesca, e la ferocia impassibile della macchina dello sterminio.

La condanna di Marina assomma dunque su di sé significati molteplici. Allo stoicismo di Manfredi e don Pietro (Aldo Fabrizi), al sacrificio di Pina (Anna Magnani), si contrappongono la lascivia, il vizio, la perversione e la corruzione morale di una donna avvenente. Pensiamo anche all’eroina negativa di Caccia Tragica di Giuseppe De Santis, del 1947, prodotto dall’ANPI. Daniela, la moglie del bandito che si fa chiamare Lili Marlene (Vivi Gioi) è la personificazione del principio di piacere che segue un irrefrenabile impulso verso l’autodistruzione. I partigiani l’hanno riconosciuta come collaborazionista dei tedeschi e le hanno tagliato i capelli. Per nascondere la sua testa rasata, lei indossa prima una parrucca bionda, poi un cappello a larghe falde che assieme a un impermeabile completa un personaggio privo di quella sanguigna passionalità popolare che anima gli eroi positivi di Caccia Tragica o, appunto, la Anna Magnani di Roma città aperta. Tale discorso si svilupperà in tutte le sue sfaccettature negli anni Settanta, sia nel cinema d’autore (Il portiere di Notte , La caduta degli Dei , Salò e le 120 giornate di Sodoma , Pasqualino Sette Bellezze ) che nel cosiddetto filone «sadiconazista», che in tal senso può essere visto come la dilatazione depravata (ma anche la parodia, potremmo dire) di una più complessa tendenza culturale di quegli anni.

Non a caso, tra i pochi riferimenti ai campi del film di Coletti del 1949 Il grido della terra , che nella prima parte è ambientato in un campo dell’Italia meridionale dove gli ebrei attendono di raggiungere la Palestina, c’è la confessione di Dina che dice ad Arié: «Devo raccontarti cosa hanno fatto di noi ragazze nei campi quei soldati tedeschi… Dio se ripenso a quel bruto… ma era l’unico modo per salvarsi». Poi, commentando un matrimonio celebrato a bordo della nave che li porta in Palestina, aggiunge: «Tutti e due sono usciti dai campi tedeschi, hanno fatto la stessa esperienza. Ma se ad Auschwitz ci fosse stata lei sola e lui fosse stato libero, non sarebbe lo stesso…».

Nino Taranto e il mito della Razza

Nel dicembre del 1948 esce nei cinema italiani Accidenti alla guerra! , diretto da Giorgio Simonelli. Simonelli, che negli anni Sessanta sarà tra gli artefici del successo della coppia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ha già all’attivo una discreta carriera come regista di film comici. Nino Taranto, il protagonista del film, indimenticabile spalla di Totò nella scena della Fontana di Trevi in Totòtruffa 62 (C. Mastrocinque, 1961), è un comico già popolare per via della macchietta di Ciccio Formaggio portata nei teatri di rivista negli anni Trenta. La sceneggiatura è di Marcello Marchesi, Vittorio Metz e Mario Monicelli. È una commedia degli equivoci, ambientata al tempo dell’occupazione tedesca, anzi come dice la voce narrante all’inizio del film «ai brutti tempi di Lili Marlene».

Michele Coniglio (Nino Taranto) si presenta nel film come «un diplomato in pianoforte che, invece di ascoltare Radio Londra, andava a letto presto». Si lancia anche in intermezzi musicali da café-chantant scandendo ritornelli come «evviva la guerra sì ma quella degli spaghetti quando scendono nel ragù». La vicenda si gioca sullo scambio di persona. Michele Coniglio divide l’appartamento con un partigiano ricercato dai tedeschi e, indossata una divisa da SS per fuggire alla cattura, viene scambiato per il capitano Von der Papen. Seguono disavventure e lazzi comici.

Sin qui non ci sarebbe nulla di rilevante in un film peraltro abbastanza modesto. Ciò che lo rende interessante oggi ai nostri occhi è il fatto che Michele Coniglio/Von der Papen viene inviato in missione a Baden Straden, isolata cittadina di una Germania di fantasia dove, gli si dice, «è stato creato un Istituto di eugenica» (scritto con la “k”, come vediamo nell’inquadratura che mostra il cancello dell’istituto). L’Istituto, «fondato per il miglioramento della razza germanica», si presenta come una specie di stazione termale. Giardini, piscine con belle ragazze ariane stese al sole in costume da bagno con la svastica sul petto; oppure che giocano a tennis, vanno in bicicletta tutte assieme o si dedicano all’«idroterapia», come ci spiega l’istitutrice. Una festa per gli occhi di Michele Coniglio che al suo ingresso esclama «ma quanto è bella questa missione!». La missione consiste nel mettere al servizio della Patria germanica le sue doti di infaticabile amatore, accoppiandosi con una gigantesca «vergine vichinga» dalla quale «si possono ricavare magnifici soldati». Il film procede su questi toni fino all’inevitabile smascheramento e fuga di Coniglio, ma offrendo nel frattempo perle di surrealismo quali una «trilogia dei Nibelunghi» messa in scena dalle volontarie dell’Istituto e allestita nel film come un numero di rivista musicale a metà tra Busby Berkeley, Wagner e Wanda Osiris.

Accidenti alla guerra! scherza sul mito della razza ariana contrapponendogli il piccolo e bruno Nino Taranto, facendo ambiguamente leva su un «piacere visivo» che allo stesso tempo esalta per così dire i risultati della politica razziale (il canone di bellezza proposto è pur sempre quello «ariano»). Anche se non ci sono accenni specifici all’antisemitismo, il film risulta decisamente interessante per varie ragioni.

Anzitutto, la possibilità stessa di poter costruire delle gag dentro un istituto di eugenetica all’indomani della guerra si fonda sullo schema che vede di qua il bravo italiano, estraneo alla logica della rigenerazione della razza, e di là i cattivi scienziati nazisti. Eppure, Accidenti alla guerra! usciva a dieci anni di distanza dal Manifesto degli scienziati razzisti (5 agosto 1938), dall’entrata in vigore delle leggi antiebraiche e di una massiccia propaganda razziale che permeava ogni aspetto della vita degli italiani. Un arco di tempo breve ma sufficiente evidentemente a scherzare su una specifica responsabilità italiana nelle politiche razziali. Tanto più che nello stesso anno del film si concludono le vicende giudiziarie a carico dei docenti universitari coinvolti nel Manifesto della razza , risoltesi quasi tutte con una piena e immediata reintegrazione nell’accademia. Dei nove firmatari che restavano (lo psichiatra e psicologo Arturo Donaggio era morto in un incidente stradale nel 1942), sette furono sottoposti al processo di epurazione amministrativa del personale universitario; dei sette che erano impiegati nell’accademia al luglio del 1943, sei continuarono a lavorare e uno solo (Leone Franzì) non venne mai riassunto, ma non per effetto dell’epurazione. In nessuna di queste vicende, come ricorda Tommaso Dell’Era, si registrano ripensamenti della propria partecipazione al Manifesto della razza (basti citare la vicenda del biologo Edoardo Zavattari che riceverà nel 1956 una medaglia d’oro come benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte, per un decreto del presidente della Repubblica, per poi diventare conservatore onorario del Museo Civico di Storia Naturale di Genova a seguito di numerose donazioni del materiale reperito nei suoi viaggi di ricerca in Africa, come esploratore).

In tale contesto, il film di Simonelli è un ulteriore tassello di quel complesso mosaico di de-responsabilizzazione italiana messo in atto all’indomani della guerra. Ma propria per la sua insolita ambientazione il film si offre anche come un sintomo del pregiudizio più duro a morire: quello di una pressione tedesca che avrebbe costretto Mussolini a instaurare anche in Italia una politica razziale e una severa legislazione antiebraica. La storiografia recente ha smentito questa ipotesi ancora ampiamente radicata nella percezione degli italiani, con studi e documenti che dimostrano la natura autoctona del razzismo fascista e l’assenza di qualsiasi pressione da parte della Germania nazista per imprimere una svolta antisemita all’Italia. Tale pregiudizio, di indubbia funzione strategica e autoassolutoria specialmente nell’immediato dopoguerra, a lungo ha impedito di proiettare l’antisemitismo fascista nel quadro più ampio delle utopie igienistiche italiane. Di guardare, ad esempio, al Manifesto della razza non solo come all’emblema della accelerazione totalitaria impressa da Mussolini al fascismo alla fine degli anni Trenta, ma di legarlo a una storia dell’eugenica italiana che mostra i propri tratti caratteristici già a cavallo tra il XIX e il XX secolo e inizia un percorso istituzionale nel 1912, quando al ginecologo Serafino Patellani viene assegnato il primo corso libero di eugenetica sociale.

L’altro motivo di interesse di Accidenti alla guerra! riguarda invece l’orizzonte in cui il discorso sulla razza e la rappresentazione del nazismo incrocia quello della fascinazione erotica. Una fascinazione resa ancora più esplicita dalla versione francese del film che esce nei cinema nel 1950. La locandina è infatti interamente costruita sul motivo delle ragazze in costume da bagno sulle quali campeggia la scritta Harem Nazi (il titolo francese del film). Come nel caso di Roma città aperta , e direi anche di più, questo film suggerisce che la tendenza del cinema italiano a erotizzare il nazismo, qui espressa nei termini di una precoce commedia-sexy, è un fenomeno complesso che sfugge probabilmente al perimetro della cultura della liberazione sessuale degli anni Settanta. Allo stesso tempo, le varie gag ambientate nell’Istituto di «Eugenika» fanno di Accidenti alla guerra! una sorta di antenato di La vita è bella (si pensi, ad esempio, alla scena in cui Benigni è costretto dalla direttrice dell’istituto scolastica a tenere un discorso sulla razza italiana agli studenti).

Ma anche in questo caso sono soprattutto i documenti della censura a offrire un ulteriore inquadramento del film nel contesto politico e culturale del dopoguerra italiano. Nella relazione scritta in sede di censura preventiva e inviata al Capo della Divisione si afferma che:

Il lavoro, scritto da umoristi quali Metz, Marchesi, Monicelli, ad uso e consumo di Nino Taranto ha un tono ed una andatura del tutto farseschi e parodistici. Il lavoro ha tutto il sapore e l’umore di una lunga “rivista” cinematografica e come tale non può mancare di spunti piccanti. Lo stesso motivo centrale dell’istituto di “eugenica”, con i tipi di razza pura che debbono fare da stalloni, ecc. è risolto alla maniera di una rivista teatrale. Se ne deduce, però, che ciò che può valere per un palcoscenico di varietà, potrebbe invece, in quanto calato nella veste rigida dello schermo, assumere aspetti e toni non perfettamente ortodossi dal punto di vista della decenza. Ad es. il copione, a pag. 82 così si esprime: «In un punto del giardino, un gruppo di bellissime ragazze seminude stanno distese sull’erba in provocanti atteggiamenti». Come sarà reso tutto ciò sullo schermo? E come sarà resa l’atmosfera del campo di eugenica, la febbre d’amore delle purissime ariane ecc.?! Il tutto dovrà essere avvolto e ammorbidito da quell’atmosfera satirica e farsesca che si spande intorno alla figura del protagonista, che è appunto Nino Taranto. Si dovrà cioè stemperare nel comico e nella parodia tutte le insidie del soggetto. Ma ciò potrà essere giudicato soltanto a film realizzato. Intanto si ritiene che il nulla osta di massima possa essere concesso.

La Commissione esprimerà poi parere favorevole a patto di vietare la visione ai minori di sedici anni. In un appunto successivo, così viene motivata la decisione:

Pure ammettendo che la trama poteva offrire talune scabrosità morali, non è stata riscontrata alcuna scena che potesse giustificare dei tagli di pellicola e, tanto meno, un rigetto completo del film. Si tratta, infatti, di un lavoro esclusivamente comico, in cui ogni asperità morale risulta stemperata ed ammorbidita dall’atmosfera satirica e farsesca che si crea attorno alla figura del protagonista principale, Nino Taranto. Se mai, il lavoro appare ampiamente criticabile dal lato artistico e tecnico, risultando la regia molto scadente ed essendo le trovate comiche quasi tutte sfocate e prive di gusto originale. Per questa insufficienza artistica, il film non è stato ammesso dal Comitato Tecnico ad usufruire dell’ulteriore contributo del 6 per cento.

Un lavoro esclusivamente comico, eventualmente più messo a rischio da una inopportuna rappresentazione del corpo femminile che dall’imbarazzo di scherzare sull’eugenetica a dieci anni dalle leggi razziali. Oppure, proprio nella sua vena farsesca la censura intravide il contributo assolutorio che un film del genere poteva dare alla più complessa opera di rimozione del razzismo e dell’antisemitismo italiano.

Interessante infine notare che il film uscirà di nuovo in sala nel 1962 con il titolo di Fifone , peraltro incappando in una multa a causa della mancata autorizzazione della casa di produzione Vulcania a cambiare il titolo del film (come si riporta in una lettera della SIAE conservata tra i documenti ministeriali della censura). Non appare casuale, insomma, il tentativo di distribuirlo di nuovo proprio negli stessi anni in cui si assiste a un primo impulso di produzioni cinematografiche popolari che intrecciano i temi della Shoah.

Conclusioni

Anche nel caso de L’ebreo errante le preoccupazioni della censura paiono riguardare esclusivamente la sfera dei costumi sessuali. Il film è giudicato dalla commissione «un lavoro pesante, di crudo realismo e di scarso valore artistico, inteso a rievocare le torture inflitte agli ebrei durante l’ultima guerra». Tuttavia, è ammesso al pubblico a una condizione:

«[…] che sia eliminata la scena che si svolge all’arrivo dei deportati al campo d’internamento, nella quale un guardiano del campo ingiunge ad un giovane deportato di dormire nella sua baracca, essendo evidente che trattasi di un invertito sessuale ».

Nel film di Alessandrini non ci sono riferimenti espliciti all’Italia (la vicenda della persecuzione nazista è ambientata in Francia), tuttavia nell’ultima parte de L’ebreo errante troviamo una prima, accurata rappresentazione dei campi secondo i potenti tropi visivi diffusi all’indomani della fine della guerra (il cancello con la scritta «Arbeit Macht Frei», le impiccagioni pubbliche, i lavori forzati, le razzie dei kapò). Pesa sul film l’ambiguità del discorso sull’espiazione ebraica, come ampiamente rilevato, che Alessandrini provava a mitigare con il cartello esposto dei titoli di coda: «Il sacrificio fu compiuto nell’amore di tutti gli uomini, come era nella parola del Signore. E una nuova speranza illuminò il cuore di un popolo che un fanatismo implacabile voleva cancellare dalla terra». Si potrebbe aggiungere anche, quale eventuale ambiguità involontaria del film, che L’ebreo errante esce poco prima di Riso amaro (G. De Santis), con Vittorio Gassman (Matteo Blumenthal nel film di Alessandrini) che entra nell’immaginario del pubblico italiano in un celebre ruolo da “cattivo”. Può sembrare un dettaglio irrilevante ma è solo per dire che ai pochi film italiani ascrivibili al canone della Shoah generalmente citati dovrebbe integrarsi un discorso che affronti il cinema italiano nel suo complesso tenendo conto dei processi di ricezione del pubblico dell’epoca, soprattutto, come abbiamo cercato di vedere, in quei film dove era possibile cogliere un riferimento implicito o meno alle deportazioni e alle leggi razziali (come ad esempio nel caso di Accidenti alla guerra! ).

Non ci pare azzardato affermare che pur non mettendo in scena l’universo concentrazionario, sia il celebre capolavoro di Rossellini che la commedia di Simonelli introducono aspetti che si riveleranno decisivi nelle rappresentazioni cinematografiche della Shoah degli anni a seguire, soprattutto per quel che riguarda l’elaborazione di un canone italiano dell’«Holocaust film».


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