26 aprile 2024

PENSIERI STUPENDI: Lavorare stanca ma non è colpa nostra (anticipazione ironica, ma non troppo, alla Festa del Lavoro)

Una rarissima foto, forse l'unica, di Giorgio Giannoni al lavoro(?) al mercato di Sarzana (circa 1981)
 


Quand'ero giovane andavo a letto tardiSempre vedevo l'albaDormivo di giorno e mi svegliavo nel pomeriggioEd era sera, era già sera...


Quand'ero giovane, 2012 Franco Battiato

 Sono passati esattamente undici anni dalla fine  dell'aprile 2013, quando ho smesso di lavorare. Sembra quasi paradossale, ma il mio rapporto di lavoro con l'azienda farmaceutica per la quale lavoravo è cessato proprio difronte al 1° maggio di quell'anno, assumendo così un significato catartico e irridente.

Sul primo maggio tornerò tra qualche giorno, ma oggi volevo fare qualche considerazione sulla possibilità che ho avuto, nei lontani anni ottanta, del secolo scorso di trovare un lavoro. Lo faccio non per narcisismo o per spirito di ripicca quanto per evidenziare a molti come le logiche lavorative odierne abbiano assunto caratteri offensivi e irriverenti verso quel poco di umanità che sarebbe sano mantenere. 

La mia carriera lavorativa ha avuto inizio nel lontano 1980 all'età di ventisei anni (qualcuno osserverà, sicuramente, che me lo sono "menato" troppo). Diplomato al liceo scientifico ("siamo forti siamo belli, siamo del Parentucelli") con il minimo richiesto e iscritto successivamente alla facoltà di Scienze a Pisa, nel corso di laurea in Scienze Biologiche, non ho mai brillato per grande capacità di studio (come ho scritto nell'Elogio all'approssimazione, ero e sono solo un curioso interessato alla Natura prestato temporaneamente allo studio complesso) e dunque mi sono trascinato, studiando, in ciò che mi interessava e mi piaceva di più, lasciando a tempi migliori gli esami più odiosi come matematica, fisica o statistica dove incontravo, lo debbo dire, alcune difficoltà. Devo comunque fare un passo indietro nel sottolineare come già dagli insegnanti delle medie fosse emersa la mia inclinazione agli studi umanistici ma qualcosa nel mio inconscio (la mia curiosa approssimazione) mi aveva spinto allo scientifico dove, masochisticamente, la matematica era proprio il mio tallone d'achille. Eppure, non ho nessuna recriminazione da fare e anzi, ho da ringraziare il nostro membro interno, il mitico professore di Scienze, Aldo Neri, che mi spinse comunque a iscrivermi a biologia, anziche andare a lingue, dove avevo immaginato di ricomporre la mia indole contradditoria. L'aver avuto un'insegnamento scientifico è stato per il sottoscritto fondamentale nell'affrontare la vita (non solo lavorativa) quando la parte umanistica ha reclamato la sua parte. Ma ritorniamo alla fine degli anni 70, quando, aldilà del bel incontro con la donna della mia vita, morì mio padre, a cinquantadue anni, in seguito ai suoi problemi fisici che provenivano da quando, sedicenne, era stato, portato in Germania dai tedeschi. Non voglio annoiarvi con il rapporto che i due figli Giorgio e Andrea ebbero con il loro padre ( e la loro madre) ma solo osservare come in una famiglia, per certi versi abbastanza agiata (mio padre era Grande Invalido di Guerra e aveva una dignitosa pensione in quanto non lavorava per i postumi delle malattie contratte in campo di concentramento) subentrarono repentinamente problemi economici per la riduzione dell'importo come reversibilità alla vedova. Mia madre, senza frapporre indugi (vecchia guardia lunigianese, temprata alla bisogna) andò a lavorare all'Albergo Laurina, gestito dalla sorella Floria e dal mio grande zio acquisito Agostino Mistura. Il sottoscritto, per ignavia e poca voglia, non aveva ancora terminato gli studi (iniziati nel 1973 avrei dovuto laurearmi nel 1977) e dunque nel 1980, essendo abile al lavoro e il futuro Reverendo Andrea ancora troppo piccolo (ma già sulla strada musicale) dovetti cercare un posto qualsiasi.

 Eccoci arrivati al dunque. Trovare un lavoro, in emergenza, nel 1980. Si prospettarono due vie, la prima di carattere raccomandativo. Un politico, amico di famiglia ( ci sono sempre i propositori di raccomandazioni e di passaggi a nord-ovest per poter intrattenere il classico rapporto do ut des) prospettava un eventuale assunzione in comune con subitanea entrata d'accompagnatore a persone portatrici d'handicap e da quella mansione si ipotizzava, bontà sua, una eventuale carriera nei corpi comunali. La soppesai con un misto di apprensione e di sospetto e non certo per i poverini che avrei dovuto accompagnare. La seconda nasceva invece dalla possibilità di lavorare al vecchio Mercato ortofrutticolo di Sarzana. Mio zio aveva il magazzino e mi disse che in uno stand vicino cercavano un operaio. Debbo dire, per correttezza, che il mercato è sempre stato per me una seconda casa. Fin da bambino lo frequentavo perchè mio nonno possedeva il magazzino con mio zio, e anche mio padre per non stare a casa, faceva qualche lavoretto da impiegato nello stand. Dunque, senza pensarci due volte, ero già al mercato a scarellare (mi è rimasto, nelle mani e nella mente il perfetto uso del carrello che è un attrezzo, con le sue tre ruote, estremamente traditore) ma dopo aver "stremenato", come diciamo noi a Sarzana,  un fila di limoni, uno dei primi errori solitamente immancabili fra tutti i dilettanti, ho passato tre anni alla grande, dove ho maturato una grande consapevolezza: lavorare di braccia, caricare e scaricare auto, trasportare frutta e verdura per la piana( ho avuto la sfortuna di vedere chiudere la ex Colonia Olivetti che in quegli anni rifornivamo ) è faticoso ed è con grande rispetto verso tutti coloro che lavorano di fatica che ho compreso, sulla mia pelle, che era meglio finire di studiare. Ah, dimenticavo: il primo stipendio fu di 750mila lire, regolare su busta paga (lo conservo ancora).

Dunque ho ripreso in mano i libri (ahimè, di matematica, fisica, statistica) e studiando e lavorando mi sono laureato nel 1982 con 95/110, un grande, approssimato risultato, con una tesi di fisiologia vegetale sulla fotosintesi. Mi prendevano anche per il c... quando, al bar di Scalini al Mercato, la mattina, mi chiamavano dottore. Sono andato via contento, soprattutto perchè mi ero guadagnato sul campo lo stesso rispetto che io ho sempre avuto per tutti coloro che lavorano, sudano, faticano, qualunque sia il lavoro che fanno, ringraziando la mia burbera e anziana datrice di lavoro, per la quale conservo un affetto infinito. 

Lavoro era dunque la parola che, dopo il mercato, andava declinata in una nuova maniera e nel 1983 un amico mi dice che le aziende farmaceutiche cercano informatori medici. Casco dalle nuvole, non ne conoscevo neanche l'esistenza. Apro i giornali che il venerdi, una volta, erano pieni di annunci di lavoro e in particolare di quella tipologia. Ho risposto a vari annunci trovandomi, dopo poco tempo, nella possibilità di scegliere. Si, signori, poter addirittura scegliere l'azienda. Prima un'azienda di Napoli e successivamente nel 1985 una di Roma, una multinazionale. In quest'ultima necessitava la laurea e un minimo di esperienza. Fatto richiesta, valutato rapidamente, assunto con periodo di prova di sei mesi. Da quel momento ho intrapreso questo lavoro fino al 2013, in maniera continuativa. Quando fui lasciato a casa, in quell'anno, con altri 160 colleghi, l'azienda, che lo faceva per motivi di ristrutturazione in Italia (aveva deciso di non essere più presente dal medico di famiglia ma solo dagli specialisti ospedalieri) ritenne giusto lasciarci una conveniente buonauscita che integrata con la mobilità e con il successivo ape sociale (una delle pochissime buone cose fatte da Renzi) mi permise di arrivare nel 2021 a 67 anni ad avere la sospirata pensione che "mia madre", Elisa Fornero, aveva negato ad un buon numero di suoi figli. Posso solo dire, per concludere, che il primo maggio 2013, alla mattina presto, dopo 33 anni di lavoro, avevo già dimenticato il novanta per cento di tutto ciò che avevo imparato sui farmaci, sul loro uso, tutto quello che riguardava burocraticamente il lavoro, la fatica in auto, i pernottamenti, le facce di alcuni medici, gli incazzamenti e soprattuto, avevo scansato l'uso di una pervasiva elettronica che ci stava, letteralmente, piovendo addosso. Si era chiusa, definitivamente, una parte della mia vita dove l'appartenenza ad un periodo ancora positivo per entrare nel mercato del lavoro mi aveva permesso di cavarmela con buona fortuna. Smettevo di lavorare a 58 anni e avevo già la curiosità di guardare oltre, di seguire i miei svariati, approssimati interessi, di osservare il mondo con curiosità e viverlo con il dovuto distacco. Ecco perchè oggi celebro questi undici anni. L'ho ricordato, non tanto per tediarvi con la mia banale vita, anche perchè moltissime altre cose sono accadute, buone, cattive, non sempre così fortunate e molto più approssimative nel loro manifestarsi da tenerle inconfessate, si direbbe oggi, per motivi di privacy, ma il lavoro, almeno quello, è appartenuto ad un momento positivo che questà società si è incredibilmente giocato, impedendo, giorno dopo giorno, di creare, da subito, quelle possibilità di stabilizzare l'esistenza delle generazioni successive alla mia. Oggi, con buona volontà della Costituzione, sarebbe impensabile per molti più giovani di ieri, avere possibilità così immediate di collocamento.

 Vorrei concludere con due  consigli: il primo diretto a coloro che vanno in pensione ed hanno paura di non sapere cosa fare nel dopo. Dimenticate il vostro lavoro e godetevi, con buona approssimazione, quanto vi rimane. Non è vero niente che vi annoiate, è solo il vostro inconscio che vi tormenta, svegliatevi!

 Il secondo è ai giovani che non vogliono studiare o che si sono fermati per i motivi più vari: lavorare è comunque fatica. Studiare e completare le proprie conoscenze è sempre meglio per tutta una serie di motivi che mi pare superfluo elencare. L'essere umano non dovrebbe nascere per lavorare ma l'evoluzione, prima biologica e poi sociale e culturale hanno pensato bene di non essere d'accordo. Le nostre società sono costruite apposta per fare godere pochi e fregare i molti. Pensateci.

Giorgio Giannoni

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